Teatro

La curiosa ricerca di Riccardo Festa

9 Dicembre 2015

Bisogna tenerlo d’occhio, Riccardo Festa.

Autore, regista, attore, sta guadagnando una sua cifra interpretativa e compositiva curiosissima. L’avevo notato, ai workshop della Biennale Teatro: con quel suo fisico da giocatore di basket che ricorda il buon Gassman non passa indifferente. Poi l’ho ritrovato al Festival Short Theatre, con una stand-up comedy, in coppia con Matteo Angius e ne avevo dato conto. Adesso ha messo a segno, nell’arco di breve tempo, una doppietta di spettacoli a Roma – il primo al Teatro Argot, il secondo all’Orologio – che confermano che, come si dice, c’è del talento.

Entrambi i lavori inseguono un tema affascinante e sfuggente: quello dell’identità, della difficoltà di stare al mondo. Che è argomento quanto mai attuale ed eternamente irrisolto.

All’Argot, Riccardo Festa aveva presentato i I-15mila passi, una drammaturgia in forma di monologo, tratta dal bel romanzo di Vitaliano Trevisan. Grande scrittura, quella dell’autore veneto: millimetricamente tagliente, disturbante, continuamente tesa a creare ossessioni attraverso l’uso magistrale della parola. Trevisan meriterebbe maggior attenzione da parte del teatro italiano (è però recente un riconoscimento al Premio Riccione) proprio per la sua capacità di tessere strutture verbali efficacissime, anche per la scena.

Riccardo Festa e Daniele Roccato
Riccardo Festa e Daniele Roccato

Così è per 15mila passi, che Riccardo Festa tramuta in una sorta di melologo, in dialettica continua con il contrabbasso di Daniele Roccato, magistrale qui nel riempire corposamente l’aria, l’ambiente, la sala con una presenza musicale davvero intensa. Nello spazio scenico astratto e concretissimo – pochi oggetti da interno piccoloborghese; una enorme cornice che inquadra il contrabbassista e un’altra, piccola, a incorniciare lo stesso musicista in versione ridotta – si dipana il racconto che è flusso di coscienza, deriva analitico-esistenziale di una follia strisciante. Thomas, il protagonista, fa a pugni con la realtà, cerca di immaginarne un’altra, attaccandosi morbosamente a dettagli insignificanti (come contare ossessivamente il numero dei passi fatti), si perde e si confonde sempre più. Nella deriva solipsistica e maniacale del protagonista, striscia suadente la follia, la violenza, anche efferata.

L’attore dà una strana, ambigua e affascinante sostanza fisica e verbale al tessuto testuale: lo dipana in reiterazioni, in modulazioni concertate che si incastrano perfettamente con la musica di Roccato, in un scambio serratissimo, calzantissimo, che è fatto di contrappunti, smentite, accompagnamenti, sottolineature. Ne esce un ibrido, piuttosto inquietante, di concerto e monologo, di rapsodia e racconto in cui non tutto è risolto, ma che ha tensione e ritmo da vendere.

Leonardodicaprio-Tuttoattaccato
Leonardodicaprio-Tuttoattaccato

Diversissimo l’approccio per Leonardodicaprio–tutto attaccato, lavoro visto al Teatro dell’Orologio.

Qui Festa è autore e regista, si ritaglia un ruolo minore ma confeziona un altro tassello di questo suo curioso modo di guardare alla vita e alla scena. Il lavoro è dichiaratamente pop, divertente, e ha il gusto di un affresco alla Carver, provinciale e scalcinato. Mette assieme la storia di un giovane benzinaio di una qualsiasi cittadina di periferia – chiamato Leonardodicaprio (scritto appunto tutto attaccato) per una vaga somiglianza con l’attore – e la vita, e l’opera, della star hollywoodiana, eterno candidato mai insignito dell’Oscar. Proprio dalle sistematiche sconfitte alla Academy Award muove la riflessione che abbraccia temi amari come il fallimento nonostante il successo, e, contemporaneamente, la disperazione nonostante una vita tranquilla.

Il protagonista della commedia, il giovane Mick, non ci sta: comincia a voler vivere come nei film della star. Cita passi interi, ne introietta le parole, cerca insomma di essere altro da sé. Il luogo di riferimento è il bar del padre: baraccio di finto legno, di quelli che conosciamo bene, che diventa improbabile palcoscenico per timidi o struggenti karaoke. Nel locale, la piccola umanità che circonda il protagonista: il padre tendente all’alcol, rigido ma non troppo; l’amico giovane garzone, desolato e desolante; l’altro avventore più grande, detto il biondo anche se moro, alle prese con lo spettro del fallimento; e poi la fanciulla, l’eterna fidanzata, l’Ofelia più consapevole di quel che sembra.

Leonardodicaprio-tuttoattaccato
Leonardodicaprio-tuttoattaccato

Non c’è trama, perché non serve: la vita è quella di tutti i giorni, con gli amori sfuggiti, i sogni infranti, la voglia di scappare, con la rivolta che cova e che, se pure esplode, non va da nessuna parte. A far da surrogati di esistenza c’è la tv, c’è il risiko, la birra, la musica, la raccolta differenziata da fare, Loretta Goggi e Maledetta Primavera, le mutande di Victoria Secret  e le modelle da sognare. Ci sono tante maschere col volto di Leo, quasi fosse Being John Malkovic. E c’è una madre che non c’è, in questa storia, e che appare in un sogno-incubo tesissimo.

Tanta roba, non tutta necessaria: ma sono tracce, reperti radioattivi, testimonianze di vite vissute ovunque, passate sempre uguali, oscillando inesorabilmente tra la rabbia e la rassegnazione. Il protagonista evade cercando nei film – nella retorica di Titanic o nella violenza di Django – una vita scintillante: chi vuole essere se stesso, in quella desolazione d’umanità? Eppure che fatica si fa, a calmarsi, a adattarsi, a non rivoltarsi contro tutto e tutti.

Leonardodicaprio–tutto attaccato gioca consapevolmente con il kitsch, mescola le carte, smonta la consequenzialità a favore di una frammentarietà intrigante, moltiplica i piani narrativi con i video.

Leonardodicaprio-tuttoattaccato
Leonardodicaprio-tuttoattaccato

Non tutto è risolto, non tutto funziona: Festa potrebbe scavare di più, essere più implacabile anche nei registri comico e grottesco, e questo vale per tutti gli spettacoli cui ho assistito. Alcune soluzioni sembrano affrettate, semplicistiche, come il finale di Leonardodicaprio, che gira un po’ a vuoto. E dispiace. Ma l’intuizione c’è, il lavoro e la sostanza pure, e ci sono attori in gamba, che assecondano bene il disegno registico e che voglio citare: con Festa, intenso, in scena, sono bravi Lorenzo Bartoli a fare il padre; Luca Di Prospero, dalla risata ingenua e contagiosa; l’inquieta e affascinante Emilia Scarpati Fanetti e il protagonista Michele Cesari: bravo, bello e simpatico assai ma che, fortunatamente, non assomiglia per nulla a Leonardo Di Caprio. Scritto staccato.

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