Teatro

La cosa principale. Laura Cleri al museo Guatelli

7 Settembre 2015

Lo spettacolo è terminato, ma dopo una lunga sequenza di applausi gli spettatori fanno fatica ad alzarsi dalle sedie e abbandonare la stanza delle scatole di latta del museo Guatelli. Davanti a loro bassi tavolini con bicchieri di mirto in parte consumati e gli avanzi di alcuni dolci. Si sentono a casa, vorrebbero ringraziare per l’ospitalità e il regalo di una storia che, a più d’uno, ha inumidito gli occhi.

Un passo indietro e siamo all’inizio: in cima alla stretta scala che li conduce nell’inusuale platea gli spettatori trovano ad attenderli Laura Cleri, attrice protagonista de La cosa principale, pièce in atto unico liberamente tratta dal romanzo di Milena Agus Mal di pietre. Un abbraccio, un sorriso e lo spettacolo ha inizio, ma i ruoli sono già mescolati: agli spettatori/ospiti vengono portati dei piccoli bicchieri da liquore, ognuno decorato in modo differente, ognuno assegnato solo dopo un lungo sguardo fra la protagonista e il suo pubblico. Un pubblico ristretto, un gruppo di amici, e un monologo che sembra indirizzato, di volta in volta, al singolo e a lui soltanto, secondo i modi tipici della sollecita attenzione di una buona padrona di casa.
La protagonista versa il mirto e racconta, dopo averla presentata mostrandone una piccola fotografia da medaglione, la storia della nonna. I gesti quotidiani si mescolano al ricordo, che sovrappone i piani temporali, ma senza inciampare, che – nell’alternarsi di risate e silenzi sospesi – dipinge a poco a poco i tratti di una figura femminile umile e statuaria.

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L’amore è l’indiscusso protagonista dell’opera. Amore negato ad un’allora ragazza di trent’anni ritenuta pazza perché alla spasmodica ricerca proprio di quel sentimento che rappresenta per lei la cosa principale, amore di dovere (quello deciso da altri a tavolino), amore studiato, quello dei compromessi coniugali, dove l’unica cosa che sembra essere negata è il calore di un affetto sincero, l’amore passionale, il solo in grado di cambiare la vita, ma anche l’amore della nipote che, con affetto, cura il ricordo di una nonna che prende sempre più vita, con il procedere dello spettacolo, arrivando quasi a specchiarsi in lei.

Passa il tempo e viene servito il dolce, sempre con sollecitudine, e intanto la storia avanza, con l’avanzare degli anni post bellici.
Come spesso avviene durante una serata in compagnia di amici l’atmosfera si fa sempre più distesa e familiare: il ritmo della recitazione acquista una nuova spontanea naturalezza, gli ospiti vengono coinvolti e costantemente interrogati dallo sguardo della Cleri, che in questo luogo d’altri tempi sembra dar corpo allo spirito più autentico dei cantastorie del passato. L’attrice osserva, comunica, ammalia, trasmette a ciascuno un messaggio che attinge alla sfera emotiva personale, la risveglia.
Il pubblico è sospeso, fuori da tempo, circondato da oggetti del passato e completamente immerso in un gioco di ricordi e sensazioni che si valgono del profumo del legno antico, dell’atmosfera polverosa, del sapore del mirto e delle piccole meringhe posate su piattini che richiamano – a ciascuno ancora una volta il suo – il tavolo della nonna nei pomeriggi della domenica. La musica, i vestiti, gli oggetti di scena: tutto interagisce con la memoria affettiva degli ospiti/spettatori in un gioco di sinestesie che si moltiplicano all’infinito.
La vicenda però non vive di sola oralità: non è nell’atto di riferire un racconto che trova origine la narrazione, ma nel fortuito ritrovamento di un quaderno, il diario personale al quale questa nonna, al tempo solo e intensamente donna, affida la memoria di un’epoca sua e sua soltanto. La storia familiare ne conserva solo tracce sparse. La scrittura, croce e salvezza di uno dei tanti animi femminili nati “troppo presto”, è qui co-protagonista ed è proprio un testo scritto ciò che rimane al pubblico al momento di lasciare la stanza. Prova tangibile di un avvenimento che potrebbe essere confuso col sogno o col ricordo.
Fuori intanto è calato il sole. È passata un’ora soltanto e sono trascorsi decenni. In breve spazio hanno trovato spazio amore e follia, desiderio e rinuncia, lo spirito vitale e gli abissi più oscuri dell’animo umano.
La protagonista abbraccia in uno sguardo la vita della nonna, che con la sua “anomalia congenita”, con la sua diversità e supposta follia ha protetto la famiglia dagli estremi di un’emotività bruciante, sanguigna, capace di generare la luce che emana il sorriso della nipote e il buio di un pozzo il cui ricordo sembra sfumare. Il pubblico applaude e poi rimane silenzioso in sala perché il pensiero ha cominciato a vagare. Dalle tante “nonne” incapaci di rassegnarsi a una vita senza passioni, alla storia delle donne, costellata di “nate troppo presto” marginalizzate e messe a tacere, per arrivare all’oggi, alla domanda centrale di quel presente che attende in fondo alla scala: avremo – noi che non viviamo nell’epoca dell’amore negato – il coraggio di riconoscere la cosa principale e difenderla?

Sapremo trovare lo spazio per coltivare, come coltivava di nascosto la scrittura la nonna della protagonista, la nostra cosa principale?

In uno spazio breve, in un tempo accogliente, Laura Cleri ha saputo regalare ai suoi ospiti non solo un’originale e vivissima interpretazione del romanzo della Agus, ma ha riconsegnato a ciascuno un ricordo che si pensava dimenticato. Una sola storia, a ciascuno il suo significato, per tutti una domanda aperta scendendo le scale.

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