Teatro

La canoa di Robert Lepage sbarca ad Atene

16 Luglio 2019

Che il maestro del Québec Robert Lepage sia un gigante della scena mondiale lo dimostra la sua ultradecennale carriera, aperta anche al cinema. Dunque, non ci sarebbe da aggiungere altro. Ma di fatto, lo spettacolo-mondo Kanata, visto ad Atene nell’ambito del bel Greekfestival, diretto da Vangelis Theodoropolos, che unisce la capitale allo splendido spazio di Epidauro, lascia qualche domanda aperta.

Kanata-Episode one: la controverse, è un lavoro che nasce dall’incontro tra Lepage e lo straordinario gruppo francese del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouckine. Insomma, un evento: è la prima volta, infatti, che la compagine di Mnouckine si apre a un altro regista, che non sia la meravigliosa fondatrice (tra i coproduttori dell’operazione anche il Napoli Teatro Festival).

Robert Lepage ha mantenuto il suo approccio abituale, quello che lo ha reso celebre con spettacoli come I sette rami del fiume Ota (visto a Montréal, sul finire degli anni Novanta, ne rimasi davvero entusiasta), La Trilogie des Dragons, Les Aiguilles et l’Opium, Le Polygraphe o le sue regie dei classici come The Busker Opera, Macbeth o Tempesta (c’è un bel libro di Anna Maria Monteverdi, che ha anche recentemente curato una mostra dedicata a Lepage al Festival Inequilibrio di Castiglioncello).

In quell’approccio dunque ci sono delle costanti: microstorie per raccontare grandi epopee; integrazioni di più piani narrativi contemporanei; meccanismi scenici straordinari e artigianali che si uniscono a proiezioni video; un “montaggio” di taglio sapientemente cinematografico applicato al teatro; uno stile interpretativo sempre quotidiano, ma non semplicistico; multilinguismo sistematico con lo sguardo aperto a Oriente e Occidente ma sempre legato al suo Québec.

Kanata, foto di Michele Laurent

Così, anche la storia di Kanata mette assieme un turbinio di vicende individuali, spesso marginali; guizzi di noir e inchiesta poliziesca; affresco corale sulla storia del Canada, e almeno tre piani di riflessione o addirittura di denuncia. Seguendo le evoluzioni o le involuzioni di una coppia di artisti che si è appena trasferita a Vancouver, lo spettacolo affastella (a volte confusamente) passato e presente, e diversi personaggi che, come tessere di un mosaico in fieri, entrano nella vicenda. La narrazione è segnata da un moltiplicarsi dei cambi scena manuali (e magistrali) impostati con la disciplina del montaggio per contrasto o per sviluppo, ma il racconto procede purtroppo non troppo spedito. Incontriamo una ragazza adottata che si dà alla prostituzione, una marea di tossici, una squadra di sbirri, una scuola di recitazione – con l’esilarante quadretto dell’attore francofono che vuole diventare “americano” – e una foresta abbattuta a forza di sega elettrica, una stalla dove vive il non troppo misterioso serial killer, e ancora un centri di accoglienza, strade della chinatown di Vancouver, interni borghesi e studi televisivi dove si sta montando un documentario sui nativi canadesi. Tanta roba.

foto di Michele Laurent

Poi i tre piani di riflessione: il rapporto con gli appena citati nativi – che ha suscitato anche proteste aspre in Canada; ovvero sia il conflitto culturale, sociale e di classe che segna gli equilibri delicati tra bianchi e nativi. Chi può rappresentare chi? Lo scorso anno lo spettacolo è stato interrotto proprio dalla comunità dei nativi che ha accusato Lepage di non averli consultati. Ed è qui il secondo piano di denuncia del lavoro: ovvero la possibilità dell’artista di farsi portavoce, di rappresentare, qualcuno o qualcosa. Nella storia, la giovane pittrice protagonista decide di ritrarre le donne uccise dal serial killer. Ma non ha chiesto alcun permesso: il suo slancio creativo sembra ingenuo e approfittatore. Lei non ha subito violenza, lei non è una nativa: non può capire, non è una autorizzata a parlare in nome di altri su questioni tanto delicate. Si potrebbe riconoscere, nel personaggio, lo stesso Lepage sotto accusa? La pittrice reagisce con rabbia: solo i drogati possono rappresentare i drogati? Solo un attore ebreo può fare la parte di un personaggio ebreo? È diffusa questa tendenza di rivendicare un “rispetto” identitario, individuale, di genere. Chissà: per Peter Brook tutti possono rappresentare tutto, e un attore africano può essere il pallido prence di Danimarca o il Duca di Milano Prospero. Non è più così, bisogna tenerne conto seriamente: nuovi limiti si affacciano all’orizzonte. Ovviamente Lepage e Mnouckine sembrano essere di altro parere, e i 32 attori in scena, di qualsiasi etnia, lo confermano.

Infine il terzo tema, il terzo ambito di indagine, quello della diffusione e della “industria” della droga, che in Canada – come altrove – ha origini storiche. Ma questo piano, oltre alla lezioncina storico-sociologica non va oltre il bozzetto impressionistico, così come la semplicistica vicenda del serial killer misogino, incastrato dalla polizia con una telecamera nascosta.

Kanata, foto ufficio stampa

Kanata ha l’ambizione di un’epopea di grande respiro, a tratti sembra una serie Tv dai ritmi fin troppo altalenanti e cali di tensione totali, con personaggini sfuggenti, poco memorabili cui ci si affeziona poco, e una interpretazione attorale piuttosto piatta (ad Atene, nel grande e scintillante Concert Hall, si sentiva anche malino).

Ma ha, dalla sua, alcune visioni bellissime: una lezione collettiva di tai-chi di grande respiro o una scena onirica in una canoa che vola e si ribalta, è di grande emozione e fascino (nella foto di copertina).

Il finale è un omaggio alla donna, alla femminilità, alla creazione artistica, alla libertà dell’artista (e del pubblico): la pittrice traccia con ampi gesti su un’immaginaria tela – che è la quarta parete: sembra che nella tappa napoletana ci fosse un velo, ad Atene no – la sua visione dell’intera vicenda, mentre tutte le donne della storia, vittime e non, si impossessano del palcoscenico. Alla terza replica nel Greekfestival, lo spettacolo ha ricevuto un applauso tanto focoso quanto breve.

Il titolo fa presagire un secondo episodio. Francamente non ne sento molto la necessità, ma magari, al contrario, Lepage saprà stupirci.

 

 

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