Teatro
La bellezza e la censura
Il bello è brutto e il brutto è bello, dicono le streghe del Macbeth.
Mentre divampa, nel piccolo mondo dei social, la discussione su uno spettacolo al Festival di Terni in cui si assiste a una scena di sodomia di lei su di lui, con apposito attrezzo in lattice e con conseguente e censoria interrogazione parlamentare (peraltro Jan Fabre, in Mount Olympus, ne dava altra versione), torniamo a chiederci cosa sia bello e cosa si brutto.
La questione, che sembrerebbe d’altri tempi – più ottocentesca che contemporanea – in realtà è spinosa. Insegna James Hillman che il “bisogno che ha la psiche di bellezza è fondamentale”. La risposta estetica, secondo il filosofo, “richiede che ci si fidi delle emozioni, di desiderio, di violenza, di paura e di vergogna”. Dobbiamo fidarci dei sentimenti, insomma, per riorientarci, per non perder(ci) di senso, corporeo e culturale.
Già, lo sappiamo: la bellezza è un fatto culturale, proprio come l’uso – o l’ostentazione – del corpo. Così, al centro della questione (e dello scandalo) resta sempre il corpo nella sua sessualità.
Ma davvero il sesso scandalizza? Chi? E soprattutto perché?
Allora, ancora, dobbiamo tessere fili, mettere tutto insieme: le donne polacche che protestano per la libertà di abortire e, da noi, un deputato di destra che interroga per uno spettacolo in cui un uomo è sodomizzato.
Il corpo della donna, ancora e sempre di nuovo, è purtroppo la prospettiva irrisolta: non c’è pace in queste latitudini. La battaglia femminista sembra troppo spesso passata invano, e non solo per il Burqua o il Chador. Il corpo della donna è la chiave con cui leggere il presente, è l’arcano irrisolto della bellezza (imposta, sfruttata, negata, coperta dall’uomo) attorno al quale si dipanano giochi di potere e di parità.
Intanto il Papa sottilmente furoreggia con la “sua” teoria del gender, e non possiamo non registrare che questo revanscismo moralistico e familista – sempre strisciante e a volte esplosivo – sia piuttosto inquietante. L’Italia, lo sappiamo, è un paese bigotto e confessionale. E anche un articolo che pone il problema del pene (ancorché di plastica), diventa spunto per diatribe politiche al pari di quanto accadde, oramai trenta anni fa, per la famosa “mossa del cavallo” fatta dai Magazzini allora criminali di Tiezzi e Lombardi al Festival di Santarcangelo. Adesso, come in quel caso, pochi hanno visto lo spettacolo, ma tutti ne parlano, focalizzandosi solo sugli aspetti pruriginosi.
E a poco serve un libro importante come Il potere terribile di una piccola colpa, del 2000, in cui Abraham Yehoshua si interrogava sulla possibilità di una seria “critica etica”, dunque morale ma certo non moralistica. Anche il bello (o il brutto) se affrontati moralisticamente perdono la ragion d’essere. Diventano funzionali, strumenti per, oggetti di prese di posizione davvero inquietanti. Un po’ come fu per l’Ultimo Tango a Parigi, la caccia alle streghe vince sulla riflessione: perché il passo dalla censura all’arte degenerata è più breve, e pericoloso, di quel che sembra.
Resta il fatto che quando ci troviamo di fronte al “bello”, alle sue molteplici possibilità, avvertiamo qualcosa di arioso, di contagioso, di commovente. Ma cosa sia, quel bello, non lo sappiamo e fortunatamente continuiamo a inseguirlo. L’arte è in costante divenire, è mutevole come il tempo – così la sua ricezione. La bellezza e la bruttezza (rileggiamoci L’estetica del brutto, di Karl Rosenkranz) sono esperienze da vivere liberamente, direi sentimentalmente, nelle infinite, variabili, incerte, complesse possibilità con cui si danno a ciascuno di noi.
Come accade, ad esempio, per Dido and Aeneas, visto recentemente al Teatro dell’Opera di Roma, con la regia di Sasha Waltz, di fronte al quale siamo stati invasi da una sensazione di piacere. Chissà, forse una piccola sindrome di Stendhal. Un piacere degli occhi e delle orecchie che si muta subito in un avvolgimento fisico, in un trasporto totale.
Il Teatro dell’Opera di Roma, con la guida attenta e lungimirante di Carlo Fuortes, sta vivendo una rinascita incredibile: è una primavera di progetti, di aperture, di possibilità. E ospitare il vecchio (del 2005) lavoro della Waltz è stata una scelta giusta (sempre straesaurito, anche in collaborazione con Romaeuropa Festival, di cui lo spettacolo è stato prologo) e un sentito omaggio alla bellezza.
Sulla partitura seicentesca di Henry Purcell, la coreografa tedesca ha costruito un affresco di gesti e situazioni di grande felicità: è un gioco, il suo, che rilancia il meraviglioso del barocco, moltiplicando i piani narrativi (e anche le figure protagoniste) in una festa della visione che non esclude – pur nella sostanziale filologia – una radicale contemporaneità di stili e modalità.
Lo spettacolo si apre – in battuta – con un vero e proprio tuffo in una piscina (nell’immagine di copertina di Ryasuko Kageyama) al centro del palcoscenico del teatro Costanzi: i giochi d’acqua che seguono, affidati ai ballerini e alle ballerine della compagnia, sono di straordinaria bellezza. Poi, usciti dalla vertigine acquatica, la vicenda si appropria del palcoscenico con mirabolanti costumi e affascinanti sequenze coreografiche: la Waltz fa suo il “classico”, lo reinventa, crea liberamente, intreccia coro, cantanti e danzatori in complessi movimenti individuali e collettivi.
Nella ricostruzione musicale di Attilio Cremonesi (che colma alcune lacune e ricompone sapientemente frammenti della partitura originale), con la vivace direzione di Christopher Moulds, questo Dido and Aeneas scorre veloce e lieve come un vento caldo d’estate. Ma c’è spazio per lo struggimento, per l’amarezza dell’addio che si consuma nel finale, soffuso come la luce delle piccole candele che fioche si spengono, lentamente, una dopo l’altra. Un senso di mestizia divampa in platea: la bellezza si consuma, passa, resta nel ricordo di chi ha visto, ed è già altrove.
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