Teatro
L’impossibilità dell’amore in “La riunificazione delle due Coree”
Un giorno Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da allora ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l’antica ferita, Zeus dopo averla inflitta, inviò Amore. Platone erge Amore a simbolo della condizione umana a cui non è concesso di distogliere l’occhio dal proprio taglio.
L’amore variamente declinato nelle sue più disparate forme, talvolta solo suo surrogato, è messo in scena in La riunificazione delle due Coree.
“La coatta divisione politica delle due Coree – del Nord e del Sud – si presta soltanto come metafora, di platonica discendenza, per interrogarsi sulle difficoltà di ri-unione di due anime gemelle”. Così il regista napoletano Alfonso Postiglione introduce, in una sua nota, la riunificazione delle due Coree, versione italiana del testo di Joël Pommerat.
Astro nascente della drammaturgia francese, Pommerat indaga l’impossibilità comunicativa e i cortocircuiti relazionali, si sofferma sulla discrepanza tra la percezione dell’amore e la realtà delle cose.
Sia che si rappresenti l’amore coniugale, sessuale, o filiale, amore vissuto, o solo sognato e desiderato, il fil rouge dei 18 quadri é la forza dirompente dell’amore presentato come un congegno difettoso che si affanna ad inseguire un’ossessione, un’illusione, riproducendo uno schema più vizioso che virtuoso.
Tutti i personaggi coinvolti in queste performance sentimentali celebrano le fatiche e le cadute dell’esperienza sentimentale nel susseguirsi di una danza multiforme di situazioni narrativamente indipendenti, ma che condividono la stessa incapacità di capirsi e farsi capire, dall’uomo in carriera che violenta l’assistente a sua insaputa, al medico preso d’assalto dalla figlia del paziente moribondo, dal maestro di scuola con attitudini pedofile giocate su una pretesa di purezza, al promesso sposo che seduce le sorelle della futura moglie.
Nell’alternarsi di storie incontriamo, ancora, la donna che istericamente si rifiuta di lasciar andare via la compagna e vorrebbe che le fosse reso l’unica cosa che nella spartizione successive alla fine di un rapporto non può essere restituito: la parte migliore di sé e quella che si illude dell’improbabile cambiamento del marito aggressivo. Si racconta, infine, il fallimento dalla coppia sostenuta ormai solo dall’affetto per i figli, e quello della coppia, invece, che si frantuma proprio per l’assenza di figli, passando per stravaganti scenette di tradimenti, bugie e ostacoli tipici del mondo amoroso, dove l’universo psicologico femminile è molto meglio delineato rispetto a quelle maschile.
Tutti i rapporti si dissolvono nel fraintendimento e nell’incomunicabilità. La gestualità esprime distanze insuperabili, la plasticità dei corpi si frantuma in pose forzate dalla lontananza, fino alla loro mutazione in manichini con tacchi a spillo e lunghi impermeabili che, rendendo tutti uguali senza alcuna distinzione, consentirà di sfiorarsi stabilendo un contatto solo superficiale. Anche le parole non riescono a superare la barriera dell’incomprensione e, invece di elaborare lo isolamento, lo amplificano nel vuoto, con dialoghi strozzati e frammentati
Le storie presentate come quadri si alternano per poi concludersi allo scadere di un gong emesso da un congegno luminoso; non ci sono punti d’inizio o di arrivo, esse procedono con un ritmo serrato, flussi narrativi interrotti che non trovano un epilogo. La narrazione, perciò, non si focalizza sull’epopea delle personalità ma getta una luce fioca su ritagli di vite.
Le scene dirette da Postiglione sono davvero spaccati di quotidianità, quelle che si trovano nel teatro della vita al di là delle quinte, sono mostra di situazioni normali che giungono, in un graduale crescendo, a quelle più tragicomicamente assurde in cui l’amore, indagato, sviscerato, incalzato e messo alla berlina, suscita disperata commozione e risata spontanea.
Tra la parodia della fiction e il dramma della vita quotidiana, tra reale e vagheggiato, Pommerat offre uno spaccato disincantato delle relazioni umane narrate nella loro crudezza seppur ricorrendo alla leggerezza per evitare di indugiare nel dramma. L’apoteosi dell’incomprensione coincide proprio col rapporto amoroso, che è spesso ridotto ad atto di egoismo: l’uomo si aggrappa alla donna che tiene stretta a sé per non cadere da soli o per scivolare più comodamente insieme nel baratro della noia.
Amore narrato come combinazione di forze per sopperire alla propria debolezza, fuga dalla solitudine, rimedio contro l’insonnia, un espediente per sentirsi normali. Come se l’individuo non volesse o potesse amare altro da sé. Ogni atto, anche quello che apparentemente sembra virtuoso, resta essenzialmente ambiguo in quanto il motore essenziale della maggior parte delle azioni umane è l’amor proprio che, come spiega il giansenista Pierre Nicole, non funziona che per interesse, timore o bisogno d’amore.
Terminato lo spettacolo, sia che lo spettatore frapponga distanza con i personaggi sia che li accolga empaticamente, non può esimersi dal riflettere sulla propria idea e esperienza amorosa, dal ripensare alle proprie ferite, disillusioni e alle proprie perdite, dall’interrogarsi sul mistero dell’amore, sulla sua vulnerabilità, sulla sua dipendenza, sui suoi turbamenti.
Ci si chiede inevitabilmente se, come notava La Rochefoucauld, la cosa più difficile da trovare nei legami amorosi non sia proprio l’amore.
Devi fare login per commentare
Accedi