Teatro
Kilowatt, Pippo Delbono e la poesia incendiaria de “La Notte” di Koltès
“….ecco perché quando ti ho visto che svoltavi l’angolo, laggiù, mi sono messo a correre, ho pensato: che ci vuole a trovare una camera per la notte, anzi per parte della notte, se uno lo vuole davvero, se ha il coraggio di chiedere, anche con i vestiti e i capelli bagnati, anche con la pioggia che mi butta giù”
Il viaggio è appena iniziato. Preceduto dalla lettura di uno scritto di Frances, fratello di Bertrand Koltès, l’autore scomparso, vittima dell’Aids, a soli quaranta anni nel 1989. Una lettera privata che, nell’affidare a Pippo Delbono il testo di culto del fratello “La Nuit juste avant les forêts” racconta anche i suoi giorni in Sicilia affascinato dalla bellezza dei tramonti ma anche la rabbia e la desolazione per l’emergenza degli sbarchi di migranti. Atto finale, lettura di un’altra missiva. Koltés alla madre che gli rimprovera la sua ossessione per il sesso si ribella rivendicando al contrario la sua personale visione dell’amore. Poche righe che mettono in contatto la contemporaneità con il teatro. Mescolano pubblico e privato, in un palco insolitamente disadorno nel Chiostro di Santa Chiara a “Kilowatt” di Sansepolcro. Non c’è scena ricca di personaggi, magari barocca nel suo allestimento, come è consuetudine per gli spettacoli di Pippo Delbono. Niente di tutto questo. Oggi si recita a soggetto. Ed è un testo di grande complessità, raro e di rivoluzionaria forza teatrale qual’è “La notte” di Koltès che il teatrante ligure, coadiuvato dal chitarrista virtuoso Piero Corso, autore di ampie e suggestive architetture di suoni e melodie, ha deciso di affrontare e togliere di scena. Cioè di farlo proprio consegnandolo all’ascolto e alle riflessioni del pubblico. E nel caso di Pippo non può essere che un viaggio serrato compiuto centimetro per centimetro quasi fosse un corpo a corpo con le parole di Koltès. Le possiede per intero riempiendole con voce possente, le arrotola fino a coprirle di un velo d’ombra, per esporle poi all’ascolto: in un rantolo. Delbono legge così “La Nuit” e il viaggio prende sin da subito direzioni inaspettate, caricandosi di riferimenti biografici e letterari, aprendo squarci di malessere doloroso dentro le coscienze. E’ come il testo stesso: una cavalcata senza segni di interpunzione. Veloce e tagliente, con la ripetitività che rilancia il ritmo e l’ansia di una notte da sottosuolo.
“… ho corso, corso, corso, perché stavolta, svoltato l’angolo, non mi trovassi in una strada vuota di te, perché stavolta non ci fosse soltanto la pioggia, perché stavolta dall’altra parte io potessi ritrovare te e avere il coraggio di gridare: compagno!, di prenderti il braccio, accostarmi a te: compagno, fammi accendere, non ti costerà nulla, maledetta pioggia, maledetto vento, che schifo d’incrocio”.
E’ una notte dove non si può stare soli: fuggire la solitudine incontrando un “compagno” con cui parlare, condividendo un attimo di vita senza temere di perderla. Non si può sbagliare. Guai se si resta esposti ai cacciatori de “rats” e alle loro ronde (“chasser le rat” sono le spedizioni punitive contro gli immigrati nordafricani organizzate nelle città francesi). Soprattutto se sei uno straniero, un “sans papier” o un diverso. Il rischio di finire in trappola è alto. E’ una maratona nel cuore della sera tra specchi di bar, vetrine di ristoranti dove annegare la personalità, confondere il proprio volto con quello di altri, un modo per diventare trasparente. Un uomo qualunque di una società benpensante. O simile ai suoi scherani. Un modo per celare se stessi e salvarsi.
Questa è la condizione di uno straniero. Di tutti gli stranieri. Nella “Notte” è un uomo in fuga, bersaglio mobile su cui si può tirare. Esposto in prima linea, circondato da mura d’oppressione, di un diffuso senso di paura. Straniero perché diverso. Senza casa vive in stanze d’albergo che si somigliano tutte. Esistenze a tempo di uomini per i quali l’eguaglianza è una chimera e anche l’amore è un atto quasi impossibile. Negato. Una domanda per la quale non c’è risposta. Ci sono in questo fluire disperato del racconto analogie e richiami all’opera di Genet, Fassbinder, Pasolini. Figure di artisti e intellettuali, soprattutto questi ultimi due, che hanno sempre amato metterci la faccia senza tirarsi indietro. Entrambi innovatori hanno amato suggere fino in fondo la vita. «Amo la vita così ferocemente – affermava Pasolini –, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza:[…] e io divoro, divoro, divoro […] Come andrà a finire, non lo so» (Ritratti su misura, Pasolini in Accrocca 1960, p. 321).
Non sembra che sia il giovane de “La Notte” a parlare? A dichiarare l’amore per la vita, a esigere il diritto per poterla consumare sino in fondo? Delbono alterna momenti di trasporto nel testo in cui si abbandona al selvaggio scorrere delle parole a improvvisi stacchi di straniamento brechtiano che mostrano con lucida regia i confini di una terra di mezzo dove si sta consumando l’incontro di una notte. Siamo al momento in cui cadono gli ultimi veli e la verità appare per quello che è: nuda, inevitabile.
“… compagno, ecco chi sono, straniero, membro del sindacato internazionale, e tutto il resto, e adesso tieni la bocca chiusa o ti spacco la faccia – e lo avrei fatto, se non avesse avuto intorno i suoi amici, i picchiatori del venerdì sera, un commando di ragazzini armati fino ai denti e io solo, straniero contro tutti, dove mi ero andato a cacciare come l’ultimo degli stronzi, con quella luce che mi aveva fatto confondere?”
“La Notte” di Koltés è diventata quella di Pippo Delbono. Le storie e i privati si sono intrecciati, gli uni con quelli dell’altro. Pippo si è immerso nel sottosuolo della parola dell’autore per tramutarla in verso costruendo la lettura come un atto poetico acuto e doloroso. Le richieste d’aiuto dello straniero così ci riguardano direttamente e in prima persona. Siamo noi stessi gli stranieri.
“… e corro, non mi sento più, cerco qualcosa che sia come dell’erba in mezzo a questo casino, le colombe si alzano in volo al di sopra della foresta e i soldati sparano, la gente suona per far su un po’ di soldi, i teppistelli tirati a lucido danno la caccia ai topi, e corro, corro, sogno il canto segreto degli arabi fra di loro, compagni, trovo te e ti tengo per il braccio, ho talmente voglia di una stanza e sono tutto bagnato, mama, mama, mama, non dire niente, non muoverti, ti amo, compagno, io cercavo qualcosa che fosse come un angelo in mezzo a questo casino e ora tu sei qui”
Delbono che sfugge a caselle e categorie. Teatrante unico, non solo in campo nazionale ma anche internazionale, artista di originale capacità, tra i pochi ad aver fatto propria in modo originale la lezione di Pina Bausch, ma anche saputo cogliere il senso dell’avventura del Terzo Teatro così come le basi fondamentali del teatro orientale, quello balinese in particolare. Apprezzabile la decisione del festival di Sansepolcro di nominarlo padrino della edizione 2022 (a cui lo stesso Delbono ha poi regalato lo spettacolo più bello) dedicandogli anche una due giornate di studio, “Così violento, così fragile”, curate dal critico teatrale Gianni Manzella _ che ha appena pubblicato il libro “La possibilità della Gioia-Pippo Delbono” (edizioni Clichy) _ e coordinate da Luca Ricci e Lucia Franchi della direzione del festival negli spazi della Biblioteca Comunale. Due giornate di convegno ricche di interventi e testimonianze, di studiosi e amici, di artisti. Dall’esauriente e puntuale ritratto del teatrante offerto da Anna Bandettini, alle testimonianze in prima persona della bravissima danzatrice Raffaella Giordano dei Sosta Palmizi e la cantante Pedra Magoni. E soprattutto il coinvolgente racconto dell’amicizia di una vita reso dall’attore Pepe Robledo con il quale Delbono iniziò in coppia la sua lunga carriera ricca di spettacoli coinvolgenti e film. A proposito di pellicole, atto finale dell’omaggio a Delbono la proiezione del film “Grido” (2006). Commovente e coinvolgente documentario autobiografico in presa diretta che racconta lo straordinario incontro con il geniale Bobò, sordomuto rinchiuso per una vita nel manicomio di Aversa fino al giorno, alla fine dei Novanta in cui è stato liberato, diventando una presenza teatrale immancabile e fondamentale del teatro di Pippo Delbono.
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