Teatro
Kilowatt, l’energia visionaria del teatro
E’ il bisogno di ritrovare le radici, ma anche nuovi spunti di ispirazione che spinge talvolta il teatro a scavare su se stesso. Viviamo d’altra parte tempi difficili e, mai come d’ora, si sente il bisogno di sperimentare rivisitando il passato. Ben vengano così spettacoli come “Yorick reloaded” frutto di una originale ideazione e ricerca de Le vie del fool, cioè Simone Perinelli e Isabella Rotolo che, ritrovando fili dispersi nel tempo riesce a intrecciarli con nuove soluzioni. Il giullare che alla fine di una intensa prova d’attore si aggira perduto in una landa desolata, lasciandoci soli con interrogativi sul presente e il prossimo futuro è probabilmente una tra le immagini più emozionanti ed ammiccanti il nostro tempo della diciassettesima edizione di Kilowatt, festival organizzato dalla compagnia CapoTrave dal 19 al 27 luglio a Sansepolcro, diretto in tandem da Lucia Franchi e Luca Ricci. “Yorick” convince sin dalle prime battute del suo folle e, apparentemente disordinato Helzapoppin. Senza effetti speciali, se non quelli della interpretazione di un ispirato attore di bella tecnica e l’ordito di una drammaturgia che, rispettando Shakespeare, capovolge il punto di ascolto e di vista dell’“Amleto”, introducendoci subito nel cuore del tragico che sta per compiersi in quel di Elsinore.
Ma il protagonista non è il principe che si mostra pazzo ma Yorick, il giullare del re padre assassinato dal fratello Claudius. Il suo teschio, ritrovato da un becchino all’inizio del quinto atto viene consegnato ad Amleto. Il mondo di sopra si incontra così con quello di sotto. Tutto è rimescolato in un agone dove caducità della vita, poesia e tragedia si sfidano. E’ un dramma che avanza e ne suggerisce altri mostrandoli come dall’interno di un caleidoscopio. I chiaroscuri sono netti: luci ed ombre sinistramente evocano il sangue. Perinelli è immerso a metà dentro una bagnarola. Ricorda quella del giacobino Marat ucciso nei giorni della Rivoluzione francese dalla girondina Charlotte Corday in “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat”, opera dal segno artaudiano scritta da Peter Weiss filmata da Peter Brook nel 1967 con Peter Magèe e una straordinaria Glenda Jackson. La citazione non è casuale. Rimanda a un’altra storia di tradimento e potere in un luogo dove gli attori vivono in uno stato di follia (sono i pazienti del manicomio di Charenton in cui è rinchiuso il Marchese De Sade che li dirige in un’opera teatrale). Qui è la linea di ribaltamento tra vero e falso, pazzia e ragione. Nel fluire di versi, dalla “Vispa Teresa” ai canti leopardiani, Perinelli apre le porte del sottosuolo richiamando un passo fondamentale dell’ “Amleto”. Sta nella quinta scena del primo atto. Solo da pochi istanti al principe è apparso il fantasma del re padre che chiedendo vendetta gli rivela la sua morte per fratricidio. Rivolgendosi all’amico Orazio (che un attimo prima aveva così descritto quella serata di obliqui presagi: “Oh, giorno e notte insieme, /quale straniera meraviglia è questa!”) scosso dalle parole del principe ma fondamentalmente scettico, Amleto sentenzia: “Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio /di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia” significando lo stupore per l’ignoto e il soprannaturale, tutto ciò che spesso scienza e ragione non riescono a spiegare. E’ il dissidio con la poesia. Accompagnato da una musica incisiva (di Massimiliano Setti) che esalta i passaggi di un viaggio dietro le quinte di “Amleto”, Yorick si riprende l’uso di una parola negata dal testo shakespiriano. Accumula materiali, frasi e brandelli di discorso, mettendo così a nudo l’incerto eroe del dramma, suo malgrado anch’egli condannato a oltrepassare la linea d’ombra.
Il teschio raccolto da uno dei becchini che scavano la tomba per Ofelia e consegnato nelle mani di Amleto è la quintessenza dell’ossessione del principe stesso nei confronti della morte. Anzi con le morti che a lui sono e saranno collegate. Da Polonio fino a Laerte e infine anche la propria. Contemplando il teschio mentre si rivolge ad Orazio rivela sentimenti di malinconia. “Ahimè, povero Yorick!…/ Quest’uomo io l’ho conosciuto, Orazio,/ un giovanotto d’arguzia infinita/ e d’una fantasia impareggiabile/ Mi portò molte volte a cavalluccio…”.Una pietas che Perinelli fa propria nel gioco del mondo alla rovescia fotografando il buco nero del potere e la solitudine del principe. Al fool tutto è permesso. Può dire e rivelare: mettendo a nudo i sentimenti degli altri fa a pezzi la tragedia e la ricompone in un altro mosaico. Tutto ciò avviene però con rispetto, a partire da Shakespeare. Non senza dimenticare il dovuto omaggio ai grandi della scena che prima di lui indagarono i temi della follia, della menzogna e del potere, come Carmelo Bene di cui viene alla memoria quell’indimenticabile frammento da “Moralités légendaires _ Hamlet ou les suites de la piété filiale de William Shakespeare” (da Jules Laforgue). L’attore tiene tra le mani il teschio e, dopo averlo apostrofato “Alas poor Yorick!” definendolo “fratello” continua tra l’altro così: “O che sventura non esserci più!/ Si, voglio andarmene via domani e informarmi per tutto il mondo dei più adamantini procedimenti d’imbalsamazione./ Ah, tutto è bene quello che non finisce mai./ Come mi annoio superiormente! E allora che aspetto qui?/ La morte? Come? Io morire? Ma via, andiamo! Io morire? Ma andiamo!/ Sì, d’accordo, si muore, ma non essere più, non esserci più! Parole, parole, parole”.
A Simone Perinelli e il suo “Yorick” Kilowatt ha affidato la chiusura della penultima serata di un festival impegnativo, fatto di molti appuntamenti, cinquantaquattro per l’esattezza _qui ne raccontiamo una parte: quelli mostrati dal 23 al 26 _ fedele alla formula del suo esordio: mantenere vivo il confronto tra teatranti affermati e giovani emergenti e l’impegno diretto da parte dei cittadini del magnifico borgo toscano ai confini con l’Umbria_ non a caso lo slogan di questa edizione è “Partecipare è normale”. Originalità di questa manifestazione è infatti il coinvolgimento degli abitanti nelle scelte del palinsesto. A Sansepolcro infatti è nata l’idea di chiamare a raccolta gli spettatori investendoli della responsabilità di decidere una parte degli spettacoli che comporranno poi il programma di Kilowatt. E’ il gruppo dei Visionari composto da una quarantina di persone di ogni età. A costoro spetta il compito durante i mesi di inverno e primavera di occuparsi collettivamente della scrematura di una parte dei video di spettacoli che ogni anno sono proposti da compagnie e singoli artisti da tutta Italia che rispondono al bando di CapoTrave. Un lavoro non di poco conto. Si tratta di vedere più di duecento filmati decidendo insieme la rosa dei nove prescelti chiamati a rappresentare al festival. L’idea è suggestiva e negli ultimi anni ha fatto proselitismo, ed è stata adottata da altri festival e teatri (e continua a diffondersi come una macchia d’olio). Ovviamente, nonostante l’assistenza della direzione artistica non tutto può filare sempre liscio. Nel senso che il risultato della selezione non è per forza sempre garantito. A volte ad esempio può accadere che uno spettacolo visto in un promo, poi dal vivo si riveli ben diverso. Ma questo è anche il bello di lavorare senza rete. I Visionari, non avendo santi in Paradiso o particolari interessi giungono alla scelta finale come risultato di discussioni e mediazioni. Tendono a privilegiare spettacoli di artisti poco conosciuti o giovani ai primi passi che in questo modo avranno una importante chance da giocare.
Corollario imprescindibile è quindi l’incontro la mattina dopo gli spettacoli al Palazzo delle Laudi, tra i teatranti e i Visionari con i quali scambiare punti di vista e approfondire le conoscenze. Meeting utili per conoscere le ultime leve, molte delle quali mostrano energie ed entusiasmo ma anche, come è ovvio, le insicurezze. In qualcuno si notano magari carenze di studi e un po’ di confusione… E’ evidente che tra diverse generazioni esista un problema di trasmissione di memoria e comunicazione. E stesso discorso sembra valere anche per il pubblico. Un gap da recuperare e superare che sembra essere all’ordine del giorno di questo festival. Kilowatt è anche un festival ormai saldamente ancorato all’Europa con la rete “Be SpectACTive!”, cioè diciannove partner situati in 18 città di quindici diversi paesi europei. Da dicembre dello scorso anno è impegnato nella coproduzione di quindici nuovi spettacoli teatrali o di danza (in occasione di un convegno sui progetti dello spettatore attivo è stato presentato Alessandro Carboni prescelto per essere prodotto il prossimo anno dal network europeo).
Ed è proprio la danza, settore in espansione in tutta Italia, ad aver posizionato anche qui a Sansepolcro le sue bandierine di un movimento in piena crescita. Dotato di bella forza espressiva e buon controllo del corpo è Davide Valrosso che in “Who is Jo”, pezzo compatto di circa mezzora inventa un personaggio vestito di nero con capellino calato sugli occhi. In tre quadri ne racconta i sogni, i conflitti e la resistenza, temi ripresi dal mondo contemporaneo che il danzatore analizza per direttrici controllate da una forza tranquilla, rigorosi e millimetrici passi fatti di movimento fluido e armonioso, ora di potenza, fortemente maschile con gesti e pose da samurai. Indagano sulla linea del trapasso e dell’aldilà, Daria Menichetti e Francesco Manenti in “Iki” (coreografia della stessa Menichetti) con una danza fatta di lentissimi spostamenti, ispirata dalle tecniche del butoh, liberando progressivamente i corpi di una coppia passata ad altra vita. La danza sfida così l’impossibile guidando nuovamente all’incontro i due amanti che per un attimo sembrano ritrovare la vita per poi perderla di nuovo.
Delicata e mai eccessiva nelle gestualità la danza dei due performer richiama al desiderio e all’amore che la fine della vita non ha cancellato. Fotografati sulla soglia come nuovi Orfeo ed Euridice hanno un ultimo “touch” prima di perdersi nell’ignoto (così nell’opera di Gluck alla fine della prima scena del terzo atto canta Orfeo: “Che farò senza Euridice?/ Dove andrò senza il mio ben?/ Euridice!… Oh Dio! Rispondi!/Io son pure il tuo fedel!/ Euridice… Ah! non m’avanza/ Più soccorso, più speranza,/ Né dal mondo, né dal ciel!”). Si respirano atmosfere new age in “Pneumatika”, coreografia costruita in tandem dalla danzatrice Luna Cenere e l’artista visuale Gilles Dubroca. Al centro è la relazione uomo-ambiente e quella tra corpo e tecnologia. Immagini di indubbio fascino scorrono sullo schermo modificando la percezione dello spazio, in verità scarsamente agito dalla danzatrice che lavora per sottrazione isolando parti del corpo nel tentativo di dare vita a una performance in cui gesto e segno iconografico, visione e movimento _ sostenuti dalle musiche ripetitive di Gerard Valverde-Ros _ si fondano in un unicum.
Obiettivo non ancora centrato, anche per la eccessiva presenza di scritte proiettate sullo schermo che, se da un lato rendono conto di una ricerca raffinata e colta, dall’altro toglie spazio a una più fluida visione. Quasi una contraddizione per quei concetti che dovrebbero in parte guidare alla fruizione spettacolare dell’insieme. Il rischio insomma è di perdere cioè la comprensione di come quel “soffio vitale” (Pneuma) dovrebbe coincidere con l’anima. Il percorso è interessante e la traccia è segnata con decisione. Attende energia e più sincronismo tra le diverse parti per uscire dalla dimensione di “tableau” psichedelico e diventare più spazio performativo e agito.
Dalla parte degli animali. Olimpia Fortuni in scena per oltre un’ora assieme ad altri quattro danzatori nella sua coreografia “Do animals go to Heaven?”, propone un interrogativo pleonastico. Come sanno gli esegeti della Bibbia e di altre scritture religiose, il paradiso è riservato solo a un numero ristretto di umani. Per gli animali insomma non c’è posto.
E, suggerisce con enfasi il lavoro di Fortuni, neanche sulla terra, dove l’uomo ha costruito lager chiamati mattatoi e zoo infierendo in modo sadico e violento sulle altre specie, decretando per molte di queste la scomparsa e l’estinzione. La coreografia, divisa in due tempi vede nel primo la Fortuni in tandem con Masako Matsushita esplorare uno spazio disadorno, con una danza fatta di gesti minimali: questa richiama con grazia femminile al rispetto di una ecologia ambientale e umana che sarà poi fatta a pezzi e messa in mora nei quadri successivi con l’irruzione militare di tre danzatori (Pieradolfo Ciulli, Gabriele Montarutti e Raffaele Tori). Le coreografie tendono a diventare collettive prendendo in finale a modello e ispirazione le opere del pittore tedesco Jonas Burgert famoso per le sue tele in cui usa animali ed esseri umani come ornamento coreografico, posizionandoli al centro di rappresentazioni rituali dai colori accesi (qualcuno lo ha definito lo Hieronymus Bosch del nostro secolo). La danza e il racconto diventano così palestra per estetismi e composizioni al limite del barocchismo consumando le buone intenzioni esposte in modo virtuoso nella prima parte.
Teatro di narrazione. Kilowatt ha rivelato due giovani talenti che hanno entrambi interessanti capacità affabulatorie e buona presenza teatrale: Alessandro Blasioli e Alessandro Sesti. Il primo è originario di Chieti e in “Questa è casa mia” riporta a una data impressa con dolore nella memoria degli aquilani: il 6 aprile del 2009. Quella del terremoto che portò lutti e distrusse centinaia di casa costringendo migliaia di persone a vivere in situazioni precarie e poco dignitose: come quella raccontata da Blasioli ripercorrendo le vicende di un suo amico, Marco e la sua famiglia, costretti a girare dagli alberghi della costa alle casette delle cosiddette New Town. Il racconto di Blasioli è ben documentato: riporta alla luce ingiustizie e misfatti di governi e autorità ma invita a non arrendersi e non dimenticare. La morte di una bambina volata via da una finestra è al centro di un caso di violenza domestica in “Fortuna” narrato con bella forza da Alessandro Sesti accompagnato alla chitarra da Puscibaua (entrambi della compagnia umbra Smg). Un racconto popolato di orrore e personaggi borderline, di gente che vive nei casermoni del Parco Verde di Caivano a Napoli, una delle zone più degradate d’Italia. Palazzoni costruiti nel 1980, per ospitare allora temporaneamente gli sfollati dal terremoto che mise in ginocchio l’Irpinia, in una zona dove coltivavano pomodori e attualmente diventata una delle più grandi piazze dello spaccio di droga. Cinque anni fa nell’isolato numero tre venne trovato il corpo di Fortuna Loffredo, bimba di sei anni lanciata giù dall’ottavo piano.
Le indagini portano all’arresto di Raimondo Caputo, vicino di casa dei Loffredo, accusato di pedofilia nei confronti di Fortuna e del suo omicidio. Pare che la bimba si fosse ribellata all’ennesima violenza. Solo un anno prima, stesso immobile, un altro bimbo di quattro anni Antonio, cadde dal settimo piano. La madre, Fabiana Cabozzi era la compagna di Raimondo Caputo accusato di violenze sessuali nei confronti di un’altra figlia della stessa Cabozzi. Tutti sapevano, ma nessuno ha parlato. Sesti racconta il dramma in prima persona ricostruendo con distacco cronachistico una storia scellerata dei nostri giorni in uno dei luoghi limite della civiltà.
“9 Lune” è la ricognizione all’interno del comune di Sansepolcro della coppia Tamara Bartolini e Michele Baronio. Una performance itinerante che frugando nella memoria dei cittadini, la data simbolo del 20 luglio 1969, quella dello sbarco dell’uomo sulla Luna, fa emergere storie di bella presa come quella di Alessia che insieme al fratello proseguono la tradizione di ristorazione dell’antico ristorante Fiorentino al centro della cittadina che diede i natali a Pier della Francesca. La storia, da seguire in parte come un radiodramma, è montata, tra suoni in presa diretta e registrazioni, dai due attori in modo perfetto: in questo caso proprio nella sala da pranzo della locanda (ma ogni giorno è stato un luogo diverso del borgo con il coinvolgimento di altrettante persone). Qui da uno schermo in bianco e nero emerge il volto del giornalista Tito Stagno che annuncia trafelato la storica impresa degli astronauti: “Ha toccato! Ha toccato!”. Tra frammenti di brani musicali del periodo e immagini video guadagna spazio la vicenda di Alessia trovatasi all’improvviso, alla morte dei genitori a gestire una impresa di cui tuttora è fedele custode.
Come è tradizione lo spettacolo nella piazza centrale punta ad un pubblico popolare: questo anno ogni sera è stata dedicata al circo teatro con la partecipazione di bravi performer come l’impeccabile e algido svizzero Marc Oosterhoff in “Les promesses de l’incertitude”, la Fabbrica C in “Minuetti” mette assieme danza, acrobatica e musica, ma soprattutto è l’eccezionale mimo e clown del futuro l’israeliano Kulu Orr in “Control Freak” a incantare letteralmente il pubblico con le sue arti magiche in cui mescola con sapienza di consumato nerd, tecnologia digitale e abilità di giocoliere. Flemmatico come un impiegato inglese Orr stupiva continuamente cambiando luci, manovrando a distanza schermi e percussioni sonore. Un tocco sulla felpa e ops, la magia. Un altro sul cappuccio e via un altro cambio di scena. Uno spettacolo di quelli da non perdere e perdersi con gli occhi di un bambino del nostro tempo già avvezzo a schermi e tablet.
Ha scelto invece il teatro di figura con marionette a vista la giovane Fabiana Iacozilli che in “La classe” traccia un ricordo autobiografico della propria infanzia alle scuole elementari quando ogni giorno doveva passare sotto le forche caudine di una terribile suora. Le marionette fortemente espressive di Fiammetta Mandich manovrate a vista sopra tavoli che avanzano e retrocedono in modo modulare raccontano di indicibili violenze sulla pelle di bambini indifesi. Ogni tanto emergono registrate le voci di vecchi compagni di scuola che raccontano piccole porzioni di una storia condivisa. Ma il racconto _ nelle intenzioni vorrebbe citare Kantor e la sua “Classe morta” _ viene bruscamente interrotto prima dalla voce fuori campo della regista che riferisce di un suo dissidio con una attrice e poi dall’ingresso della medesima a gamba tesa in scena. Un coup de theatre che imprime una netta virata al racconto riducendolo a vicenda personale tout court. Da storia di denuncia sociale di violenze sull’infanzia si degrada veloce a un “come eravamo”. Da teatro pubblico a stanza dei ricordi. Per intenderci, alla fine della corsa l’immagine della suora tiranna verrebbe persino riabilitata perché in fondo fu proprio lei a intuire in quella ragazzina le doti di futura regista aprendola al “mondo delle meraviglie” (“mi fece fare le regie di tutti gli spettacoli” racconta la voce) cioè al teatro. Nel frattempo è scattato il calendario.
Teatro e letteratura. Una anticipazione su un lavoro che verrà si è vista a Kilowatt e riguarda un racconto inedito di Hemingway, drammaturgia di Maura Pettorusso e regia di Stefano Cordella con due attori di bella sostanza, Woody Neri e Stefano Pietro Detassis. E’ un primo studio (il titolo previsto è “Quattro quadri su Ernest Heminguay”) ma già si coglie il senso di un lavoro già pronto per la scena. Non vale raccontare la storia per lasciare intatta la sorpresa di una novella che contiene tutti gli elementi “forti” del narrare di un grande come Heminguay. La boxe, il giornalismo e la capacità di scendere negli inferi per raccontare la carne e il sangue di vite a perdere. Il testo è una chicca e gli attori per la mezzora vista si calano bene nella parte.
Sul fronte del coraggio civile e impegno teatrale per la polis si deve registrare come occasione mancata lo spettacolo presentato, “corpore assenti”, da Elio Germano su copione curato in tandem con Chiara Lagani in “La mia battaglia” versione realtà virtuale. L’allestimento che ha già circolato in diverse sale punta formidabili strali sui nascenti populismi e mette in guardia su come i rapporti di questi con il fascismo siano stretti. Lo fa utilizzando il testo di “Mein Kampf” cioè “La mia battaglia” di Adolf Hitler. Ma nel teatro virtuale cosa accade? Gli spettatori seduti in una stanza qualunque indossano dei visori con cui si visiona lo spettacolo come se si fosse dal vivo dentro una sala. Nessuno intende negare la possibile utilità di una tecnologia del genere. Ma l’effetto _ almeno quello sperimentato a Sansepolcro _ non è quello desiderato. E, a parte il caldo della giornata e la pesantezza delle maschere, la necessaria concentrazione che si deve a uno spettacolo teatrale smorza e va a farsi benedire scivolando decisamente nella noia. Forse un video ben girato avrebbe risolto il problema. Ancor più la presenza reale e tangibile dell’attore. Solo sulla scena e senza l’effetto pralinato del calore che diventa nebbia sul visore come un parabrezza di un’auto in una giornata di nebbia. Molto meglio, molto meglio dal vivo.
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