Teatro
Kilowatt Festival omaggia Virgilio Sieni
Sono stato troppo poco al Festival Kilowatt di Sansepolcro per dare un giudizio complessivo sulla manifestazione. Quel che ho intuito e visto, però, mi fa pensare a un festival ben organizzato, saldamente legato a una visione di città e di coinvolgimento, di apertura e ascolto. Certo, c’eravamo tutti noi “addetti ai lavori” a connotare una affluenza che però si mostrava oggetto di interesse anche da parte di “semplici” spettatori: gli eventi in piazza, come lo spettacolo del bravo Vinicio Marchioni dedicato a Dino Campana, erano affollati così come le proposte più ardite di danza contemporanea che mi è capitato di vedere. Poi, come sempre, viene da chiedersi quale sia il confine tra “festival” e “città”, tra “innovazione” e “intrattenimento”, tra “spiazzamento” e “conferme”. Quale sia ormai, ogni volta batto su questo tasto, il senso di quella strana cosa chiamata Festival. Ma simili domande valgono per tutte o quasi le “kermesse” estive. Al Kilowatt hanno trovato varie risposte: si può essere d’accordo o meno, ma la direzione artistica di Luca Ricci e Lucia Franchi hanno avviato progetti europei, iniziative per coinvolgere gruppi di cittadini, residenze e quant’altro. Basta? Forse no, forse sì: di fatto, nel volgere di pochi anni, Sansepolcro si è fatta conoscere come sede di festival, ha inventato qualcosa che prima non c’era e adesso è una realtà, anche grazie a uno staff giovane e sempre sorridente, all’uso anche originale di diversi spazi storici, a un cartellone ampio e, come detto, articolato.
All’interno della proposta 2018 c’era un arioso omaggio a Virgilio Sieni, con spettacoli e un convegno a lui interamente dedicato. Il coreografo ha presentato il suo ormai celebre solo sulle Variazioni Goldberg e un lavoro collettivo, con non professionisti, dedicato a Piero della Francesca, Ballo 1450-Resurrezione.
E al convegno c’è stata la possibilità di analizzare e approfondire gli infiniti spunti che arrivano dalle diverse anime del percorso creativo di Sieni. Assieme a relatori di tutto rispetto, dal collega e amico Rodolfo Sacchettini che ha presieduto i lavori, al filosofo e editore Maurizio Zanardi, all’architetto Riccardo Blimer, lo storico Mario Bencivenni e il fondatore di Aboca Valentino Mercati, abbiamo affrontato – ciascuno a proprio modo – il tema della discussione: La natura del gesto.
Per quel che mi riguarda, ho avuto il piacere di concentrarmi sul percorso “parallelo” di Sieni, ovvero non quello legato alle sue algide e bellissime coreografie, dove emerge quel che Zanardi ha definito “gesto puro”, quanto quelle iniziative “sociali”, trasversali ossia di coinvolgimento. Provo allora a riportare qui, su carta, quello che è stato un intervento “a braccio”, fatto su appunti e su ricordi personali.
Per me, come critico e testimone, quel percorso si inaugura nella bottega di un ciabattino, al festival di Dro, molti anni fa. Ricordo ancora la presenza di quell’uomo ormai anziano, l’odore di colla e cuoio, la penombra, e un gesto – semplice e potente – che rendeva straordinaria la presenza ordinaria, materica, concreta della danza. Era l’Italia della miseria, delle botteghe, degli artigiani dimenticati che si faceva presenza, comunità, era il corpo che si faceva e travalicava la Storia. Ecco, in questo percorso creativo di Viriglio Sieni trovo una attitudine forte nel rendere plurale ogni percorso individuale, nel salvaguardare personalità e specificità ma inserendole in un discorso collettivo, ossia marcatamente politico oltre che estetico.
Ricordo poi – complice un editore coraggioso come Ghigo Maschietto – un viaggio a Marsiglia per ricostruire, quasi indagando, le tracce del passaggio di Sieni in occasione della Capitale della Cultura 2013: ritrovare, nella città francese, persone che avevano preso parte allo spettacolo di chiusura, rileggere lo “scheletro” della città completamente reinventato in una azione coreografica che lasciò un segno indelebile nelle menti e nelle coscienze. Era una mappa altra, una reinvenzione urbana e umana, come Sieni pratica, sempre più spesso, in territori i più diversi.
Ricordo ancora la Biennale Danza, con un Vangelo Secondo Matteo in cui spiccavano – per me spettatore – quattro donne, anziane raccoglitrici di pomodori di Pezze di greco, in Puglia. Straordinarie nella loro presenza umana, semplice, vera. «Odori di gelsomini e povere minestre», scriveva Pier Paolo Pasolini. Infine mi piace ricordare una via scintillante d’oro, una strada di Firenze interamente ricoperta da foglie d’oro, non per sfarzo o per eccentricità, ma, ancora una volta, per esaltare le capacità “manuali”, il sapere artigiano, la coscienza della bellezza che sta anche in bottega.
Ecco, sono esempi diversi, momenti diversi di un viaggio nella danza e nel teatro che però mette al centro una riflessione sul ruolo dell’artista nella società. Un artista che non esita a schierarsi, a coinvolgere anziani, bambini, disagiati, persone comuni in progetti e percorsi che si incontrano certo con il bello, con la Bellezza, ma si impongono come necessarie riflessioni sul senso. Il gesto artistico allora è comunitario.
Perché stiamo là, incantati, a guardare un uomo, una donna, che danzano al ritmo di una musica? Cosa c’è di eternamente valido in questo patto tra danzatore e performer? C’è, forse, il bisogno di condivisione, di comunione appunto. Erano le famose “D” della tragedia greca: dialettica, dialogo, democrazia, di cui mi parlava, giorni fa, l’attrice greca Lydia Koniordou, oggi Ministro della Cultura del suo Paese. Erano le domande che la tragedia poneva continuamente alla comunità. Ecco, dunque, perché per me questo percorso “parallelo” di Sieni acquista valenza ulteriore: proprio perché torna a confrontarsi con quello che era l’elemento fondamentale del tragico: il coro. Il coro che siamo noi, là in scena, rappresentati da altri come noi.
Dunque la risposta politica a uno slancio creativo, la declinazione etica di una prospettiva estetica. Nel mio materialismo storico, vedo in questo approccio una forza inusitata, una radicale messa in discussione di temi e contraddizioni sempre attuali. L’attenzione alla questione economica (la bottega, le raccoglitrici di pomodori) rende poi evidente uno sguardo sulle forze economiche in atto: Sieni parla di lavoro, si confronta con i lavori della realtà, non rifugge il confronto con i grandi temi dell’economia. Ma ce ne mostra, semmai, i risultati, ricordando a tutti e ciascuno chi siamo quando lavoriamo. Allora quel ciabattino, seduto sul suo sgabello, respirando a fatica, ritrova nel gesto una affermazione di sé, una risposta all’alienazione, un tentativo di contrastare la sfavillante narrazione del Mercato. Chissà se quella bottega sarà ancora aperta, o non sarà stata risucchiata da qualche enorme centro commerciale.
Sieni fa fermare la nostra attenzione su queste persone, su questa realtà economica, culturale, sociale. La nostra. Ci fa cogliere – come lui stesso dice – «l’ombra dell’altro». Ecco il tema, il passaggio ulteriore: ricordarci l’Altro da sé, l’altro da noi. Nelle giornate in cui il ministro Matteo Salvini vuole chiudere i porti ai disperati in fuga, nel momento in cui l’Altro preme alle nostre porte in cerca di salvezza, e trova razzismo e violenza, il nostro miglior teatro ci chiede di riflettere su una questione spinosa: quando creiamo comunità? Quali sono gli spazi comuni che ci restano? Una volta era la piazza: e oggi? Siamo sicuri che le piazze siano ancora nostre?
Virgilio Sieni ci porta nei musei, nelle strade, nelle botteghe artigiane facendoci respirare, finalmente, il sapore antico della comunità. Il coreografo – non solo lui, anche altri si stanno muovendo fortunatamente su simili suggestioni – rinnova l’idea stessa di “rito culturale”, spingendoci a passare dal conclamato e ormai esploso individualismo a una rinnovata, antica e tragica, idea di comunione. Ecco perché mi piace pensare che la natura del gesto sia profondamente, umanamente, politica.Una occasione di riflessione costante, di domanda pressante, di ipotesi di futuro.
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