Teatro
Kilowatt festival, chi salverà il giovane teatro?
Cosa sta accadendo al nostro giovane teatro? Possibile che la scia nefasta della pandemia con i vari lockdown abbia prodotto a tal punto confusione, mancanza di fiducia, progetti claudicanti e scarsa energia? Perché non si raccontano più o quasi i nostri giorni? Dove va questo Paese? E l‘Europa, dove il mostro della guerra si è insediato nel suo cuore? Intanto il Pianeta sembra correre veloce verso la catastrofe senza che qualcuno metta in campo soluzioni immediate per fermare il disastro. Artisti, poeti e teatranti perchè non danno la sveglia? Pare quindi che le emergenze del momento non siano materia su cui riflettere. Tra ristori da percepire, finanziamenti che non arrivano, spettacoli che dopo il debutto raramente arrivano alla ventina di repliche (per essere ottimisti) il nostro giovane teatro ha davvero materia per preoccuparsi rimanendo confuso e infelice. Chi produce chi? Cosa è meglio produrre? Poi c’è da stare attenti al mercato… ma chi è che fa questo mercato? Coproduzioni: con chi e perché? Ogni anno la sua pena. Cosa accadrà domani in questo settore che più precari di così si muore? Mentre la lotteria del Fus compie ingiustizie, l’iper produttivismo, favorito dalle regole imposte dal sistema, sta impoverendo il teatro italiano. Non si studia più. Ricercare è diventato un lusso: soprattutto se devi chiudere lo spettacolo e provare a venderlo in tempi brevi. Figurarsi se c’è spazio da dedicare ai maestri. E poi: chi li vuole più? In Toscana un proverbio dice che la gatta veloce fa i gattini ciechi. L’ansia di arrivare fa bruciare le tappe spesso con risultati mediocri o poco interessanti. Non basta essere stato l’assistente di o aver vinto quel premio per avere automaticamente il regno dei Cieli. E laddove, per caso, il confronto si fa con le compagnie e i gruppi stranieri, il risultato è spesso imbarazzante. Forse perché provengono da realtà meglio attrezzate e più rispettose della cultura? Perché poi è dell’assenza di cultura teatrale che bisognerebbe iniziare a discutere seriamente in questo Paese.
Uno dei luoghi dove, più o meno da venti anni, è possibile monitorare lo stato dell’arte è il festival di Kilowatt che si tiene a Sansepolcro, il paese che ha dato i natali a Pier della Francesca, borgo toscano ben conservato a pochi passi dall’Umbria. Questo anno la rassegna si è fatta in due. Dal 12 al 16 luglio si è svolta nella sua storica residenza e dal 20 al 24 luglio debutto nella città di Cortona. Edizione speciale quindi per il ventennale che ha avuto come padrino Pippo Delbono a cui è stato dedicato anche un convegno. Tanta attenzione è stata ricambiata dal teatrante ligure con una interpretazione de “La Notte” di Bernard-Marie Koltès da far venire i brividi ai polsi. Come al solito il programma per una parte è deciso e allestito dai direttori artistici Luca Ricci e Lucia Franchi di Capo Trave e dall’altra dall’assemblea dei cittadini Visionari. Costoro hanno passato in rassegna filmati e video trailer di spettacoli teatrali (420) decidendo l’immissione in programma di ben 9 opere. Nella buona come nella cattiva sorte. Qualcuno sostiene che forse sono un po’ troppi e le scelte potrebbero snaturare quelle della direzione del festival. In realtà la stessa manifestazione è legatissima a queste figure che alla fine rappresentano un esempio di cittadinanza attiva nel teatro, un caso quasi unico in Italia. E se poi capita che gli spettacoli prescelti non sono granché non è mica la fine del mondo…
Dalla Danimarca è arrivato l’esempio di un modo originale di lavorare sull’energia del corpo da HimHerAndit compagnia queer diretta dal coreografo Andreas Constantinou che in “Mass Effect” ha prodotto un teatro muscolare e sportivo. Un gruppo di sette performer mantiene per quasi mezz’ora un passo di corsa sostenuto alternandosi volta per volta alla guida nelle pur semplici figure coreografiche. E’ un darsi totale alla corsa in modo generoso e senza sbavature, spingendo l’esercizio al limite della resistenza, modificando volta per volta le figure d’insieme, lasciando spazio maggiore a chi è più fresco per recuperare forza. La corsa prosegue con l’innesto di altri performer locali con i quali durante la settimana la compagnia danese ha provato a lungo. La scena, arricchita da volti nuovi, mantiene alta la tensione. L’insieme dei performer corre mantenendo lo stesso ritmo fino a trasformare l’happening in un rito collettivo che trasmette gioia di vivere: uno dopo l’altro si spogliano dei propri indumenti ritrovandosi tutti quanti nudi a correre. Sembra una replica di certe azioni di protesta freak degli anni settanta che consistevano in spogliarelli effettuati a passo di corsa. L’obbiettivo era naturalmente quello di provocare una società bigotta sollevando il tema dei diritti.
Ma “Mass Effect” ricorda, anche e soprattutto, la genesi di uno spettacolo, “Yuri”, della compagnia olandese Club Gewalt composta da performer punk (autentici, non per finta). In “Yuri”, che racconta l’ascesa e la caduta di un celebre campione olimpico olandese, il ginnasta Yuri van Gelder, il gruppo si muove in velocissime e precise costruzioni coreografico-sportive ad alto dispendio di energia. Lo spettacolo venne presentato con grande successo di pubblico alla Biennale di Venezia nel 2019. “Mass Effect” è godibile e i performer sono davvero bravissimi. In scena: Aris Papadopoulos, Aline Sanchez, Theo Marion, Paola Drera, Elise Ludinard, Heli Pippingskold, William Cardoso.
Inizia con una danza sulle punte “Opa”, della svizzera di origini greche Mélina Martin, affascinante attrice e danzatrice alle prese con la storia della “donna più bella del mondo”: Elena, moglie di Menelao re di Sparta, pietra dello scandalo e casus belli tra Troia e gli Achei. Mescolando in modo ironico e savoir faire spettacolare, il mito con la realtà contemporanea, Martin costruisce il ritratto iconico di una donna lontana dalla realtà letteraria ma vicinissima ai nostri giorni. Elena icona del desiderio, donna rapita e ferita nell’orgoglio e nella personalità. Donna oggetto e ribelle. Protagonista di un cammino di rivolta guardando dritta negli occhi gli spettatori. Elena rapita e violentata da Paride; Elena stregata da Afrodite per innamorarsi del suo violentatore; Elena esiliata in Egitto. La mancanza di risposte ai dubbi, le domande inevase e la rabbia che si impadronisce in Elena è trasmessa in modo diretto da Martin, un’artista che in modo fluido alterna nel parlato la lingua francese al greco delle sue origini. Veste di bianco, un abito lungo da sposa e sul palcoscenico utilizza solo due sedie e un microfono. La “donna più bella del mondo” mutata la sua pelle si ribella a una società maschilista e patriarcale che l’ha collocata sempre e solo all’angolo con un inatteso e liberatorio urlo nel silenzio che sconquassa le coscienze e lascia un nodo in gola. Lasciando soprattutto forte ammirazione (come recita “Opa” in greco) per una donna che ha scelto la libertà. Il soggetto è della stessa Mélina Martin in collaborazione con Jean-Daniel Piguet; suono e luci di Leo Garcia, la direzione tecnica è di Felipe Pascoal.
E’ una relazione, tra allieva e docente, nata all’interno del corso Animateria di Gioco Vita di Piacenza diventata poi un neo sodalizio artistico quello che lega Nadia Milani e Valentina Lisi, responsabili di “Relazioni necessarie”, godibile allestimento che mescola teatro di figura e presenza d’attrice per raccontare dall’interno le vicissitudini di una famiglia piccolo borghese. Dal matrimonio alla nascita della figlia Matilda fino alla crisi coniugale. Interpreta Matilda la stessa Valentina Lisi illustrando il personale universo fatto di nonne e zie, non particolarmente amate, di madri che soffrono in silenzio e padri ingrati. “Tranches de vie” rese anche visivamente con immagini mostrate volta per volta da Matilda da un gigantesco libro che si sfoglia come un album pop-up e da cui spuntano sagome di personaggi, fotografie e scenografie per le situazioni anche comiche che coinvolgono la protagonista. Lisi è precisa nel manipolare carte e cartoni, usando ombre cinesi e quant’altro, dando voci ai diversi personaggi di una storia che con la separazione dei genitori le strapperà il cuore. Non basta invece affidare a Neville Tranter la regia dello spettacolo per fare centro. Peccato, perchè i pupazzi di “Bubikoff”sono ben realizzati e manovrati dalla coppia di Politheater, Silvia Fancelli e Damiano Zigrino e il loro soggetto, ambientato all’epoca di Weimar, vede al centro la mitica istituzione del cabaret tedesco (ma il teatrino purtroppo non è stato ricreato in scena). La vicenda prende spunto dall’acconciatura, Bubikof appunto, un taglio alla “Valentina” di Crepax, assai di moda tra le donne negli anni Venti a Berlino. Come la giovane Bubi, che canta per pochi spiccioli in strada: viene notata dal capocomico Hullo che l’arruola nel suo spettacolo di cabaret.
Ma l’arrivo della giovane artista nel teatro scatena gelosia e rivalità. La cornice esterna è quella che precede l’avvento del nazismo con la presenza di ronde armate che si aggirano la notte per imporre un regime di terrore. Questo il soggetto che nel racconto mostra purtroppo più di un buco nella drammaturgia. Neville Tranter è di sicuro un grande del teatro di figura e la sua forza sta anche nell’inventare soggetti paradossali e situazioni surreali. Presidia la scena fino in fondo e la sua figura è fondamentale dal vivo negli allestimenti a cui offre straordinarie qualità attorali: uno dei pochi nel saper costruire un perfetto controcanto ai personaggi di pezza. Purtroppo in questo caso non è stato all’altezza del suo pirotecnico teatro.
Ha un titolo davvero impegnativo l’allestimento del giovane ma già blasonato Paolo Costantini vincitore del bando per giovani registi della Biennale College 2020: “Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda” (spettacolo presentato in prima assoluta l’estate scorsa alla Biennale di Venezia). La trama c’è ma non si vede. E’ quella del racconto “Oggi avrei preferito non incontrarmi” del Nobel (2009) Herta Muller che racconta l’Odissea di una giovane romena, operaia ai tempi di Ceausescu che ogni settimana deve recarsi negli uffici della potente polizia segreta per essere interrogata.
I suoi spostamenti in tram, per raggiungere il luogo dell’interrogatorio, sono l’occasione per ripensare la propria vita focalizzandosi sugli eventi che l’hanno segnata di più. Un cammino nel dolore, testimonianza amara di un regime totalitario tra i più feroci. In quel viaggio la donna fa il bilancio della sua vita in uno spazio di tempo sospeso. Costantini _ che ha avuto come tutor Antonio Latella _ non riprende il plot romanzesco, bensì si focalizza sulla “condizione di estraneità” così bene evidenziata dal libro di Herta Muller. Quel tipo di situazione soffocante descritto dalla scrittrice per Costantini è in grado di evocare il nostro tempo. Non si vive attualmente sotto un regime ma quello “è sostituito da una dittatura della frenesia del fare”. Quello che nel romanzo è l’ufficiale di polizia incaricato a interrogare, a teatro diventa il Tempo. Sempre Costantini: “abbiamo voluto lavorare sulla distorsione del legame tra ritualità quotidiane e la funzione degli oggetti, che nell’azione divengono portali per fuggire dal tempo e perdono quella familiarità alla quale si è abituati”.
Bene. Tutto questo bel po’ di roba, come si è tradotto in scena, dove la provvidenziale drammaturgia di Linda Dalisi è riuscita ad evitare scontri frontali tra le due performer, Evelina Rosselli e Rebecca Sisti (i due volti della protagonista) che si dannano a stare dietro un teatro d’oggetti costruito nel segno dell’accumulo? Gli spettatori vengono accolti da un lunghissimo silenzio: a misurarlo sinistramente è il tic tac di un metronomo e il ronzio di uno zigzagante robot, una trottola che misura lo spazio come una macchinetta impazzita. Da questo momento in poi è un estenuante defilè di oggetti di uso quotidiano: gonne, scarpe e stivali indossati e sfilati, ben allineati sul pavimento come pezzi di un collezionista. Questi cambiano di continuo posto e prospettiva, mentre l’azione delle performer ha improvvise accelerazioni. Impegnate come sono nel modificare di continuo lo spazio scenografico sembrano aver ingaggiato una lotta contro il tempo. Si cita Esopo, la fiaba della cicala e la formica. L’ozio e il lavoro. Da quale parte stare? Tutto si percepisce ordinato come in una partitura musicale (c’è pure un bel solo al sax della Rosselli), ogni azione ha il suo timing e rinvia allo scontro con il Tempo, autoritario e inflessibile. Qua e là emergono come fantasmi tracce narrative che rimandano al libro della Muller. Ma sembrano piuttosto un atto dovuto e citazionista per aver montato un dispositivo scenico dove è la fisicità delle performer, la presenza degli oggetti (anche con immagini splatter di una cassettiera che apre i suoi cassetti vomitando sangue manco fosse una allucinazione da“Shining” ) a muovere la scena. “Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda” tiene campo con soluzioni visive anche interessanti, ma rispetto alle intenzioni iniziali queste appaiono piuttosto accessorie, lontane e sfumate come la spessa nube di nebbia che alla fine, lentamente, si impadronisce della scena. Difficile uscire fuori, d’altra parte, da un tema offrendo al posto suo pluralità di linee di fuga che rimangono appunto in fuga.
Supera in scioltezza la prova “Pietre Nere” dei Babilonia teatri che padroneggiano un metodo di lavoro di alta artigianalità come le compagnie di giro di una volta. Rimanendo comunque dentro la contemporaneità con la lucidità di antenne sensibili ai cambiamenti. Enrico Castellani e Valeria Raimondi, in questa occasione con Francesco Alberici e Luca Scotton, responsabile della direzione scenica, in tutto quello che fanno mettono attenzione e una serietà di artisti-ricercatori aggiungendo punti di vista inediti e soluzioni originali a problemi quotidiani.
“Pietre nere” in questo caso è frutto di un lavoro di indagine che ha visto la compagnia al centro di un progetto multidisciplinare di Casa Mondo che ha unito assieme la Corte Ospitale, i Babilonia e Rete Patric con il sostegno della Compagnia San Paolo.
Assieme a cinque artisti (Elisa Pregnolato, fotografia, Nadia Pillon, illustrazione, Anna Zegna, artista video, Jonel Zanato suono e Daniela Costa, video) hanno partecipato a una indagine sul concetto di casa partendo da luoghi che normalmente abitazioni non sono. Da una casa di Riposo di Asti a un centro di accoglienza maschile e femminile, un dormitorio maschile a un Centro per persone con disabilità. Tuti i materiali raccolti sono confluiti nello spettacolo dei Babilonia diventando materiali di riflessione (dalle voci ai suoni e le immagini). L’obiettivo dichiarato è quello di “spostare il punto di vista. Accogliere e adottare lo sguardo di chi questi luoghi li abita”. E ancora : “Ognuno ha la sua casa. Casa è il nostro corpo. Sono i nostri vestiti, E’ la persona amata, E’ un affetto. Una città, un quartiere. Casa è il luogo dove siamo cresciuti. Casa è un oggetto, una foto, una lettera, un profilo su un social network”.
I Babilonia leggono e reinterpretano. Aggiungono specialità a una ricerca su un valore fondante per la vita come è la casa. L’approccio è quello di chi si mette in gioco regalando pezzi consistenti di umanità ad un mondo in piena crisi di affetti e incertezze del futuro. Lo sguardo è compassionevole. Attento a quella che è la cornice del nostro presente. Consapevoli che la vita del Pianeta è a rischio: puntuale e necessaria la citazione di Emanuele Coccia (“dobbiamo tutto alle pietre”) che riporta i piedi per terra. In un interessante intervento, nel settembre dell’anno scorso al festival di filosofia “Oikeiosis”, Coccia, autore del saggio “Filosofia della casa”, ha affermato che “la casa è sempre stata e sarà una forma di libertà”. Dalle case la riflessione va spostata alla città “che è stato il laboratorio, il teatro della libertà moderna. O meglio la modernità è proprio quella congiuntura storica culturale che ha fatto coincidere libertà e spazio urbano”. Durante il lockdown però “la città è franata, crollata davanti ai nostri occhi e con essa anche la libertà che garantiva”. Da Pechino a Modena tutti hanno passato tantissimo tempo a casa, Da quel momento in poi “abbiamo cominciato a costruire e a pensare la libertà diversamente da come l’avevamo fatto nel passato”. E’ nata così una nuova forma di libertà domestica e di condivisione della libertà stessa. E nel futuro “saremo sempre più costretti a ricostruire le libertà a partire dalle case, e non dalle città, non dagli Stati”
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Come carambolare questi concetti filosofici, che rimandano a riflessioni e ricerche assieme a quell’indagine in luoghi non convenzionali di abitazione in senso stretto? Facendo piazza pulita. Dando una spazzata alla scena ingombra di cavi, casse, attrezzi di scena con il sottofondo rock degli Afterhours (“1996” e “Male di miele”). Tutti insieme _ c’è anche il piccolo Orlando Castellani in scena _ si agitano e si muovono indaffarati su uno spazio che viene misurato, occupato. Il tutto in una atmosfera libertaria e caotica.
“Facendo pulizia” dice Castellani, “dà occasione di conoscere i nostri vicini e socializzare”. Dalla pulizia all’uso dello spazio domestico, la propria intimità ma anche tanti luoghi da abitare. Una o più case. Da quella di Giuseppe e Maria, formato presepe vivente ai pacchi che cadono sulla scena mentre la colonna sonora rilancia “Fabbricando case” di Rino Gaetano o la versione mix di “Gloria” di Gianni Togni. A sorpresa si gonfia un gigantesco divano color rosso che occupa tutto il fronte della scena con il piccolo Orlando che ci balza dentro. Anche stavolta la mission è compiuta, Ironia, divertimento e un bel graffio satirico.
Ironico, leggero e come al solito accattivante lo spettacolo di Silvia Gribaudi, “Insectum” – in realtà piuttosto il frutto di un work in progress che necessiterebbe ulteriore lavoro di scavo _che ha visto la coreografa torinese in tandem sul palcoscenico con la bionda e alta Tereza Ondrovà. La presa di contatto della coreografa con il pubblico è sempre ad alto gradimento: in grado immediatamente di suscitare simpatia e stabilire complicità. Un filo che la danzatrice abilmente sa mantenere nelle sue mani alimentando costantemente un flusso di contatto con gli spettatori. E una corrente che conduce talvolta a una smorfia comica o suscitando improvvisa meraviglia per la semplice efficacia delle figure coreografiche. Anche “Insectum” risponde molto bene a questa descrizione. Nato durante la pandemia, in virtù di un incontro tra la Gribaudi e la danzatrice e coreografa praghese, è stato solleticato da un interrogativo inquietante al tempo stesso di stretta attualità in un momento come questo su cui ci si interroga sui cambiamenti climatici.
“Come sarebbe la vita se la vedessimo dal punto di vista di un insetto? Possiamo modificare completamente il nostro stile di vita ispirandoci ad altri esseri viventi? Come possiamo spostare il punto di vista da una visione antropocentrica?” . Quest’ultimo in particolare sembra il vero e fondamentale quesito strategico che obbliga il genere umano a interrogarsi su se stesso e il bisogno urgente di cambiare strategia e modi di vivere. Le due danzatrici e coreografe montano passi a due di bella intensità, eppure sciolte e leggere nel movimento come nella capacità di evocare la riflessione o suscitare un un sorriso. Nel finale Ondrovà e Gribaudi coinvolgono il pubblico chiedendo una partecipazione con il corpo: spettatori prontamente conquistati e accompagnati a passo di danza fuori dal teatro.
Nel mezzo della programmazione di un festival che non ha riservato in questa edizione, grandi scoperte ed emozioni (tranne Delbono, insistiamo) è apparso un “solo” delizioso, ben costruito, accattivante e forse anche un po’ auto compiacente _ ma che importa? _ dotato di bella forza interiore, una strategia del movimento che lascia sorpresi per le acrobazie e la leggerezza aerea dei gesti. E’ “Prometeo?” del milanese, residente a Palermo, Lorenzo Covello che ha affrontato uno dei miti più affascinanti della storia dell’Umanità: quello della conquista del fuoco, donato da Prometeo, uomo comune o semidio, un Titano fotografato nel mezzo di una scelta difficile che segnerà anche la sua fine. Covello è solo con una sedia al centro di una scena che repentinamente piomba nella oscurità. Evoca quella linea grigia e incerta che separa il mondo degli uomini da quello degli dei. Il suo corpo diventa un magnete che recupera e tiene incollati su di sé gli sguardi mentre disegna una visione da sogno, fugace e incerta. Un mito che sa parlare agli uomini. Regala una luce e lascia in dono una speranza. Covello alle spalle ha una formazione poliedrica. Viene dal mondo del circo e del mimo, studia e si laurea in design. Ha lavorato a lungo con Emma Dante e per la danza ha fatto parte nel 2019 della compagnia di Daniele Ninnarello.
E’ una bella manciata d’anni che si sono spenti i fari sull’anniversario dei primi trenta anni dal punk, biennio 2006-2007, eppure l’attenzione resta alta nei confronti di questo movimento, non solo musicale. Ultima importante ribellione giovanile. Inizialmente nel Regno Unito e in alcune zone degli States. Rivolta seminale che lasciò tracce nella letteratura, nell’arte visiva, cinema, poesia. Fenomeno di culto, ciclicamente di moda eppure… nonostante il livello di attenzione sia ancora alto, continua a godere di pessima letteratura. A ispirarsi all’onda rivoluzionaria di quel periodo è “Punk, Kill Me Please” della coreografa e danzatrice emergente Francesca Foscarini (scritto in collaborazione con Cosimo Lopalco) presentato a Kilowatt ma in giro nei palcoscenici italiani da circa un anno. Teatro, installazione, danza, performance? Forse un po’ di tutto. Il titolo svela la fonte di ispirazione, omaggio al volume scritto in tandem dal giornalista musicale Legs McNeil con Gillian McCain: “Please Kill me”, dal sottotitolo originale “The Uncensored Oral History of Punk”, concentrato di storia orale distillato da decine di interviste. Uscito nel 1996 e ristampato nel 2006 (anno in cui è stato pubblicato in Italia) è stato un best seller. In primis perché soddisfa il voyeurismo di molti fans indulgendo nel gossip sulle rockstar di cui vengono rivelati vizi e virtù, droghe e sesso in libertà, un po’ alla maniera dei diari delle groupies. Non c’è niente di male a raccontare anche questa parte ma spesso il rischio è di perdere di vista la conoscenza delle motivazioni sociali e culturali che stanno dietro un tale movimento di massa. Non è qui il luogo per aprire la questione, ma “Please Kill Me” è americano centrico. Si racconta del rock in generale e anche del punk ma le maggiori attenzioni sono per le band stelle e strisce dagli Stooges di Iggy Pop, New York Dolls, Ramones etc.. e molto molto meno di quelle UK: dai Sex Pistols a Clash, Damned etc.. Per avere uno sguardo più equilibrato comprendendo che del punk non si può fare un solo mazzo (vedi le differenze tra inglesi e americani) sarebbe utile leggere altri saggi e volumi come ad esempio “England’s Dreaming” di Jon Savage...
Quanto sia materia ancora incandescente tutto ciò lo testimonia il fatto che, ancora a distanza di tanti anni, sul punk in Italia, resistano ancora luoghi comuni e stereotipi senza fondamento, costruiti all’epoca dalla grande stampa ma fatti propri anche da ambienti alternativi come l’allora movimento del 77 che nei confronti del punk ha mostrato all’inizio avversione (tranne qualche importante eccezione) liquidandolo con superficiali accuse di neofascismo e paccottiglia varia. Inevitabile che gli stereotipi possano riemergere anche in un allestimento come quello in cui Foscarini e Beatrice D’Amelio costruiscono in modo citazionista una serie di quadri non direttamente connessi e in sequenza tra loro. Questi quadri sono dieci, una specie di guida in un foglietto diffuso all’ingresso dello show: Intro; Never Mind The Lipsticks; Fuck Me Tender; Hell Of Love; White Mountain; Pogo Kids; Bodies; You Eternal Fascist; Vivienne Uber Alles; Vicious Mother, Best Kebab in Town. Più che un racconto “Punk, Kill Me Please”è così una galleria con diverse stazioni. Che non scioglie l’ambiguità: è uno spettacolo evocativo di un movimento? Un allestimento che prende a ispirazione alcuni temi oppure vuol essere addirittura uno spettacolo punk?
Nella nudità di spazi disadorni (ad un lato della scena sta un giradischi che viene usato per suonare i dischi) si svolgono azioni minimal, atti simbolici che suggeriscono momenti di un vissuto punk: storico e quotidiano. Vestite in scena con due stoffe di tartan scozzese che si chiudono alla bell’e meglio con del nastro adesivo, le performer insistono in atti simbolici, scrivendo sul proprio corpo, sollevando il pugno chiuso, indossando maschere da fedayn (queste in realtà poco comprensibili). In movimenti sempre più ravvicinati utilizzano metri e metri di nastri di carta adesiva segnando e delineando lo spazio fino a chiudersi in un quadrato. I corpi si sfiorano ma di rado disegnano complesse figure d’insieme. La drammaturgia è elementare e, nonostante tutte le buone intenzioni, alta è la confusione. Le scelte musicali poi segnano un contrasto aspro con le immagini di una scena che continuamente si chiude in se stessa evocando un ordine senza far emergere la rabbia anti sistema. E non possono certo farlo le canzoni da sole. Anche se si tratta di “Oh Bondage! Up Yours!” dei fondamentali X-Ray Spex, “I Wanna Be Your Dog” e “We Will Fall” degli Stooges; “Suspect Device” di Stiff Little Fingers, “Iki Maska” e ”Born in Xixax” di Nina Hagen. Tra musiche di Beethoven e Vivaldi non poteva mancare, un po’ scontata, in chiusura “My Way” gioiello interpretativo a livelli superlativi di Syd Vicious. Tutta grande musica non c’è che dire, ricca di riferimenti epocali e allusiva a quei momenti perduti di una generazione che non poteva più scalare il cielo e avvertiva tutto intero il dramma di non avere un futuro davanti (“No Future”). Tostissimo ridisegnare quel tempo, e non possono bastare certo una o due canzoni. E’ materia ancora incandescente e comunque la maneggi scappa via. Ci vorrebbe energia di tipo speciale. Occorre attitudine punk. Solo così si può fare. Ma l’attitudine punk non si insegna in nessun laboratorio. O ce l’hai, oppure no.
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