Teatro
Katharina Blum e la macchina del fango
Sono passati pochi giorni dall’anniversario della strage di Piazza Fontana. E in molti hanno evocato, per l’occasione, la figura di Pietro Valpreda, una vittima – tale fu – del giornalismo sparato, dell’isteria giustizialista, della velocità e della superficialità con cui si bollano, e si condannano, le persone. Viviamo anni in cui la “presunzione di innocenza” sembra sbiadire nel ricordo, sopraffatta dai meccanismi della diffamazione, delle “macchine del fango”, delle campagne elettorali diventate “bestie”. È l’eterna stagione dello “sbatti il mostro in prima pagina”. In fretta, senza approfondimenti, senza aspettare gli esiti giudiziari.
Il giornalista ha il potere di dire la sua verità, ma se il cittadino è stato danneggiato, leso, può rettificare: ossia ha il diritto di pubblicare le sue righe, senza che ci sia una discussione, nella stessa collocazione, con gli stessi caratteri: un diritto quasi mai applicato, se non imposto dai giudici. Oramai, però, i giornali non si interrogano più sulla eventuale innocenza, ma cercano lo scandalo, semplicemente etichettano, marchiano a fuoco. E con loro la stragrande maggioranza degli utenti di quei social che hanno, di fatto, moltiplicato le tribune e i tribunali. I “processi”, sbrigativi e superficiali, si fanno online con frequente corredo di insulti, odio, minacce. Il discorso è complicato, lo sappiamo, e delicato: eppure online pare avvertire l’eco di quel giustizialismo sommario della stampa scandalistica, che trova rinnovato spazio sui social ed è supportato – o istigato – da un giornalismo asservito, complice, opportunista.
Chi aveva capito tutto, già da tempo, è Heinrich Böll, che nel 1974 scriveva L’onore perduto di Katharina Blum, romanzo diventato film l’anno successivo grazie a Volker Schlöndorff e Margarethe von Trotta. Storia passata, eppure di cruda attualità: una giovane, irreprensibile, ragazza, a servizio nella casa di una coppia liberal e impegnata, commette l’errore di innamorarsi di un uomo misterioso, Ludwig, un criminale in fuga, addirittura sospettato di essere un terrorista protagonista di rapine per finanziare la lotta armata. Erano gli anni del terrorismo, della Rote Armee Fraktion, della Baader-Meinhof e la Germania, come l’Italia, faceva i conti con la rivolta armata. Böll, da par suo, capovolge la prospettiva, la racconta dal punto di vista minimale e marginale di una vittima indiretta, che cade però nelle fauci della “macchina del fango”: un giornalista, tal Werner Tögtes, capisce l’aria che tira, gonfia lo scandalo senza scrupoli, rovinandole la vita.
Ed è proprio una requisitoria contro il giornalismo d’assalto, contro lo scandalo sistematico, che Böll prende posizione, svelando il meccanismo inarrestabile in cui entrano in gioco tutti: poliziotti per bene e altri arroganti, familiari, opportunisti dell’ultimo minuto, la cosiddetta “opinione pubblica” tanto facilmente impressionabile. Katharina si voterà alla difesa a spada tratta del suo “onore”, del suo buon nome, ma non avrà altre possibilità per sottrarsi alla diffamazione che procedere per la via spedita della vendetta personale.
L’onore perduto di Katarina Blum è arrivato sulle scene, in questa stagione, grazie al Rossetti, il Teatro Stabile di Trieste, (in coproduzione con i Teatri Stabili di Napoli e Catania) con la regia di Franco Però e la compattta drammaturgia di Letizia Russo. Ed è uno spettacolo intenso, ben fatto, asciutto nel restituire il testo in tutte le sue valenze. In una scena modulabile, capace di creare ambienti diversi (di Domenico Franchi) che prende vita grazie alle luci insinuanti di Pasquale Mari, con i costumi di Andrea Viotti che restituiscono l’epoca, la storia della giovane Katharina è sezionata come in una feroce testimonianza in qualche aula di tribunale, o forse come una autopsia, fino ad assumere i caratteri del noir, del vero e proprio poliziesco, dal ritmo incalzante e asfissiante. Schiacciata nel turbine di una scelta “sbagliata” – ma Katharina non sapeva, non poteva sapere – e di aver protetto quel criminale in fuga, la giovane donna non ha speranza: nessuno tutela il suo onore. Strana parola, “onore”: specie in Italia dove assume immediatamente il sapore bastardo della vulgata mafiosa o maschilista. Eppure il decoro, la dignità, l’onore appunto sono beni della persona, da ricordare e rispettare. Lei lo dice al mondo, nessuno l’ascolta.
Lo spettacolo, insomma, ha il merito di rispolverare la vecchia “presunzione d’innocenza”, di far riflettere sugli usi e i (mal) costumi della stampa non solo italiana, di sollevare il velo sulla complicità di un sistema delle comunicazioni social ormai virato al massacro sistematico della vittima di turno. Da Enzo Tortora a Raffaele Sollecito, passando per Liliana Segre e Michela Murgia, fino ai tanti casi recenti e passati di hatespeech, i meccanismi di violenta “demolizione” dell’identità, della rispettabilità, della presunzione di innocenza sono all’ordine del giorno.
A dar forza allo spettacolo, nella curata regia di Però, il compatto cast e due “star”. La prima è la brava Elena Radonicich che, colpa mia, non conoscevo. Scopro essere una protagonista della Tv, ma qui la trovo attrice potente, sensibile, originale, sorprendente, con tempi e modi suoi, anche buffa nel tratteggiare il carattere incerto e rigoroso di Katharina.
Accanto a lei, troviamo con grande piacere l’ottimo Peppino Mazzotta, uno dei nostri migliori attori, ormai alla sua maturità interpretativa: sapiente, saggio, curioso con quel suo scuotere la testa a negare l’evidenza nel ruolo dell’avvocato Hubert Blorna: umanissimo nella sua nevrotica disfatta.
Da citare anche lo spigliato cronista Tötges di Riccardo Maranzana e il commissario Erwin di Francesco Migliaccio. Con loro Maria Grazia Plos, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi e Jacopo Morra.
Visto al Teatro Eliseo di Roma, lo spettacolo ha riscosso un convinto applauso.
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