Teatro

Jurij Ferrini e le Baruffe “Italiane”

6 Dicembre 2017

A me diverte molto seguire il percorso teatrale, sempre più sicuro, di Jurij Ferrini: lo avevo incrociato ormai decenni fa, con il suo Progetto Urt, e lo ritrovo, spettacolo dopo spettacolo, consapevole di una precisa linea stilistica e interpretativa. Perché se c’è un punto che si fa sempre più netto, nel suo lavoro, è lo scrollarsi di dosso ogni “autorità” del cosiddetto “Teatro di regia”. Anzi: c’è una demistificazione sistematica dell’aura registica, un tendere ironico e guascone a una sorta di “nuovo capocomicato” – di cui scrissi in passato – che si mescola non solo all’appassionata attenzione all’arte dell’Attore, ma anche a un coinvolgimento disinvolto del pubblico (che non è l’orrida “partecipazione” tanto di moda). C’è un rinnovato gusto per l’immediatezza, per la sfrontata leggerezza, per quel prendersi non troppo sul serio che risulta oltremodo piacevole e salutare. Anche senza andare troppo a fondo alle questioni, ma sempre con cura e sapienza: una precisa scelta, insomma.

Jurij Ferrini, foto Bepi Caroli

Come scriveva Sergio Tofano: «quando di un attore, per lodarne la semplicità e la naturalezza, si dice con una frase fatta che “recita come parla”, la verità – non lo diciamo per il gusto di fare un paradosso – è che parla come recita». Un ritorno, dunque, all’attore, al gioco del teatro – il solito adagio del to play, Spiel, jouer messo in pratica. La qual cosa diventa eclatante anche per il fatto che Ferrini non si perita di affrontare proprio quei classici su cui si è cimentata la migliore scuola del “Teatro di regia” di ieri e di oggi.

In sostanza, mi sembra che, nell’estrema serietà, voglia divertirsi, circondato da una “ciurma” di attori e attrici appassionati e generosi, e se ne infischi del peso del passato. Delle sovrastrutture, delle pedanterie, delle filologie, delle trovate e delle riletture, delle visioni e delle invenzioni. Prende un bel testo, lo condivide con la compagnia e lo mette in scena per il pubblico. Detta così sembra facile, ma potrebbe essere una rivoluzione: magari funziona meglio con la commedia che non con la tragedia, ma di fatto è restituire il teatro a una immediatezza che non guasta. Ferrini non è il solo a farlo, per fortuna, ma certo è tra i più determinati.

Così quest’anno, con il Teatro Stabile di Torino – il teatro nazionale è ormai una sua “casa” –  ha affrontato Le baruffe chiozzotte del buon Carlo Goldoni. Chiariamo: io adoro Goldoni, lo reputo un genio non solo per la profondità di temi trattati, per la ricerca linguistica, per quella faticosa “riforma” che ha saputo mettere in atto, ma proprio per i suoi ritratti umani, per i dettagli, per i particolari umani e sociali.

da sinistra Sara Drago, Beatrice Vecchione, Elena Aimone, Barbara Mazzi, Rebecca Rossetti, Jurij Ferrini, Foto Bepi Caroli

Allora, la notizia è che, nell’allestire le Baruffe, Jurij Ferrini si è rivolto a Natalino Balasso per aver da lui una “traduzione” in italiano del testo scritto nell’incomprensibile e rude dialetto Chioggiotto. Si sa, la commedia è fragile dal punto di vista strutturale, eppure è un ritratto, un affresco di vita quotidiana, impregnato di amoretti, di lavori faticosi, di dispute legali dovute a ripicche e permalosità. Sembra che tutto accada, ma non accade nulla: si parla, ci si insulta anche, per gelosie o fraintendimenti e poi tutto puf, svanisce nell’eterna immutabilità di esistenze grame. Sono personaggi minimi, appena tratteggiati, eppure profondissimi, come è spesso in Goldoni: la speranza di star bene, di metter su famiglia, di aver un nome rispettato e quel po’ di benessere che la vita, faticosamente, concede.

da sinistra Christian di Filippo, Michele Schiano Di Cola, Angelo Tronca, foto di Bepi Caroli

Ecco, in questo “giorno in pretura”, Carlo Goldoni – che era stato proprio coadiutore di tribunale a Chioggia – infila i suoi personaggini prechecoviani, evocandoli con affetto, con tenerezza, ma senza compatimenti: sono uomini e donne con una loro forza, con una dignità antica e popolare, addirittura con una coscienza di classe schietta e decisa. In questa prospettiva certo la questione linguistica si pone come snodo non solo drammaturgico ma culturale: quel sottoproletariato antelitteram si riverberava nella propria lingua, ancorché incomprensibile ai più.

Ricordo la celebre e bellissima versione fatta da Giorgio Strehler (la “ripresa”, non l’originale: sono vecchietto, ma fino a un certo punto), ne ricordo il “freddo” che penetrava nelle ossa, la desolazione, con quella sagoma stilizzata forse di una brazzera, comunque di una modesta imbarcazione da pescatori sul fondo. Quel mondo povero e marginale torna oggi in una doppia veste: da un lato proprio a Chioggia, dove ogni estate vanno in scena le Baruffe nei campielli e sui ponti, ovvero nei “luoghi originali” in un evento affollatissimo, e per lo più turistico; dall’altro, ora, con Ferrini, che rinnega scientemente il luogo d’origine, ossia il fattore linguistico, e ne fa un intrigante gioco teatrale. Ecco, dunque, la prospettiva “critica”: lo spettacolo si apre come fosse una “prova”, quasi un Sei personaggi oppure un Teatro Comico dello stesso Goldoni, con il regista-Ferrini che dà indicazioni agli attori, in vestiti pseudoquotidiani, chiamati a provare per l’appunto le Baruffe.

da sinistra Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Sara Drago, foto Bepi Caroli

Inizia in modo disinvolto la messainscena. I dodici interpreti che accompagnano Ferrini sono generosi: tengono benissimo il gioco. Che è sottile, quasi evanescente come la trama. Però poi, come giusto, esplode il litigio, la rissa, e tutto si tiene: Ferrini da “regista” entra presto in commedia, come Teodoro, a dirimere la causa e a combinar matrimoni. Il ritmo, inizialmente blando, si fa vivace, una galoppata che non esclude piccoli ammiccamenti, giochini a sorpresa, cambi scena a vista (la struttura in legno mobile, che fa interni e esterni, case piazze e barca, è di Carlo De Marino). È il coro che fa sentire la sua voce, è il canto di ciascuno che si intreccia a quello degli altri: son bravi gli attori e le attrici, nel tenere individualità e insieme, personalità e gruppo.

Sarebbe ingiusto elogiare l’uno o l’altra, tutti meritano una menzione: Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Christian De Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Michele Schiano Di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca e Beatrice Vecchione. A volte troppo macchiette, altre troppo ammiccanti: ma con un’energia e una adesione lodevole in tutti e ciascuno.

foto di Bepi Caroli

La traduzione di Natalino Balasso, con questi interpreti, fila liscia e arriva calibrata, senza grandi guizzi e con cadenze anche prevedibili: solo uno dei personaggi parla un grammelot veneto-chioggiotto con effetti esilaranti, gli altri hanno tutti un buon italiano ma non mi son piaciuti quegli “stronzo” e “stronza” reiterati e, a mio parere, piuttosto inutili

Il finale, una volta che le nozze son compiute, scende a un “minore”, a un tono più mesto: non so, mi chiedo, a quel punto sarebbe stato forse meglio tenere la verve del gioco e poi magari, arrivati alla fine della finta prova che fa da cornice, evocar mestizie. Ma tant’è. La fine ha funzionato e ben si colloca nella tradizione della lettura strehleriana. E queste nuove Baruffe “italiane”, non più solo “chiozzotte”, incastonate in quel gioiello che è il teatro Gobetti di Torino, riscuotono risate e calorosi applausi.

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