Teatro

Jan Fabre, Lino Musella e il giornale notturno

28 Marzo 2019

Rutilante, urticante, magmatico, magnetico, ipnotico, pedante, entusiasmante, divertente, commovente, geniale… quanti aggettivi si potrebbero usare (e sono stati usati) per il teatro di Jan Fabre?

Il lungo, complesso, articolato percorso creativo, intrecciato di danza, arti visive, scultura, musica del maestro Fiammingo che si è sempre autodefinito un cultore, un adepto dell’arte in tutta la sua anarchia, ha toccato apici e attraversato momenti bui. Con i suoi “guerrieri della bellezza”, Jan Fabre si è imposto come uno dei cardini attorno cui ha girato la scena europea dagli anni Ottanta in poi. Non è un caso che lo storico del teatro Hans Thies Lehmann collochi Fabre nell’empireo di quel “teatro postdrammatico” da lui teorizzato: dopo Bertolt Brecht e Muller, con Bob Wilson, ecco proprio Jan Fabre a segnare una strada creativa che anche altri hanno percorso e sviluppato. E non sono pochi gli allestimenti che hanno lasciato senza fiato gli spettatori: basti citare Mount Olympus, straordinaria maratona di 24 ore di spettacolo che, pur mettendo a dura prova anche lo spettatore più affezionato, ha avuto un successo strabiliante (a Roma calcolai 40minuti di applausi finali).

Ma assieme a questi lavori giganteschi, Fabre ha da sempre dedicato altre creazioni a singoli interpreti, forme “monologiche” per mettere in scena soliloqui di particolari attrici o attori, davvero “suppliziati che fanno cenni dal patibolo” come avrebbe detto Antonin Artaud. Lavori indimenticabili nella loro essenzialità, affidati a  Els Delaceukelier, a Lisbeth Gruweth, a Anthony Rizzo ad altri.

Ora, per il nuovo monologo in scena, Fabre lavora con lo straordinario attore italiano Lino Musella. Si tratta di The night writer, visto al Fabbrichino di Prato, in una produzione tra la compagnia di Fabre e Aldo Miguel Grompone con partner italiani. Il monologo è tratto dai tre capitoli, ossia dai tre volumi che coprono un arco di tempo di venti anni, del “Giornale Notturno”, libri editi con la consueta cura da Cronopio.

L’esito è una strana combinazione tra journal intime e romanzo di formazione, in veste teatrale. Libri che si fanno teatro, insomma, in quello che simbolicamente consente anche un superamento del “post-drammatico”, peraltro del 1999, verso altre, rinnovate, forme.

Foto Gianluca Di Iola

Ed è uno spettacolo di rara intensità, crepuscolare e visionario, divertente e dissacrante. Poetico di una poesia trattenuta, detta timidamente, appena evocata sul filo dei ricordi. Ma The night writer gode anche di un impianto istallativo, plastico: non solo una gigante proiezione a segnare il fondale, ma anche una pedana di sale, su cui spuntano, come creste lunari, quattro pietre, le “Stein” (per un gioco che non vi svelo), cui Musella si affida in un prova sospesa tra pratica performativa e sapiente interpretazione. Va detto: Lino Musella è ormai uno dei migliori attori italiani, e qui acquista una identità ulteriore, giovando senza dubbio della regia di Fabre, cui l’attore restituisce toni però suoi, più umani, anche dubbiosi e (auto)ironici: certi testi, ascoltati in italiano, perdono quel rigore prescrittivo che risuona, magari involontariamente, nell’originale o in inglese. Davvero è un piacere ascoltarlo, guardarlo, seduto alla scrivania o improvvisamente in piedi, con quell’aria sempre lievemente stralunata, eppure dolentemente presente a se stesso.

Dunque il racconto autobiografico, sulla scia delle pubblicazioni del Giornale Notturno, evoca tutti i temi cari a Jan Fabre: la “bellezza”, quella bellezza terribile dell’arte cui il regista si è detto, da sempre, devoto; la famiglia – la madre, il padre cui sistematicamente torna – e l’insonnia; la vulnerabilità del corpo, la ferita come elemento creativo; gli svelamenti del sé, l’autoindulgenza e la durezza estrema, il rigore, gli slanci e i timori, il sogno e la certezza del successo, infine l’anarchia dell’amore, dell’immaginazione, dell’arte («le tre leggi della vita che osservo»).

Foto Gianluca Di iola

E in questo monologo – certo meno aggressivo e violento dei lavori corali – non mancano brani di vecchi spettacoli (come il bellissimo Io sono un errore, del 1988, o Corpo, servo delle mie brame dimmi, del 96), piccoli giochi di prestigio o fantastici slanci canori ad esempio con un My way, molto più Sex Pistols che non Sinatra, e con Amandoti dei CCCP, vero manifesto ironico-poetico della fatica d’amare. Nella forma diaristica, mantenuta con la cadenza di date e luoghi, lo spettacolo si chiude in una proiezione: un Jan Fabre giovanissimo, l’eterno trench addosso, impegnato in una improbabile performance sul fiume, ad Anversa nel 1988: attraverso lo sguardo disincantato di Lino Musella, Jan Fabre osserva se stesso. Chi era. Chi è.

Nella consapevolezza amara che «È un sacro dovere studiare e liberare il corpo. Nel teatro e nelle arti visive.
Il mio catechismo:
l’arte è il padre; la bellezza, il figlio
 e la libertà, lo spirito santo». Un piccolo gioiello, ancora in tournée, da omaggiare in silenzio.

 

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