Teatro
Ivo Dimchev a Inequilibrio: sesso in scena? Basta pagare!
Metti una sera a Castiglioncello, sulla costa livornese, con il vento che soffia lieve e porta il profumo dei pini dal mare. Tornare al festival Inequilibrio, organizzato ogni estate da Armunia, significa entrare nella magia posticcia di Castello Pasquini, edificio – addirittura castello – finto antico che fu già regno dei Macchiaioli, oppure evocare le tappe finali di quel Sorpasso che decretò, laddove ce ne fosse bisogno, il successo di queste piccole spiagge.
Nei bei saloni dell’Hotel Miramare, dove alloggiò nientemeno che Winston Churchill, aleggia ancora l’aria languida del passato recente, quell’eleganza blasé, da “vestivamo alla marinara”, che rende tutto più morbido, estivo, allegramente e intelligentemente futile. Il festival, oramai alla sua XXI edizione, diretto da Angela Fumarola e Fabio Masi, mantiene viva la sua missione di spazio aperto alla ricerca, alla sperimentazione, alla contaminazione arguta di linguaggi e codici.
Così, nella tensostruttura apparsa nel parco, nell’anfiteatro, o in qualche sala del Castello, si susseguono appuntamenti, dedicati magari più agli addetti ai lavori che non al grande pubblico, giacché son scelte complesse, sperimentazioni che azzardano anche il “non-finito”, il primo passo verso, o la scoperta assoluta.
Nella mia prima giornata al Festival, quindi, mi è capitato di imbattermi in un prezioso e breve assolo di danza dell’iraniano Sina Saberi, elegante e stringente composizione che sa evocare – ai nostri occhi occidentali – miti e riti di un medio-oriente conosciuto, amato e temuto, astratto e concretissimo. Piccolo omaggio alla cultura persiana, Prelude to Persian Mysteries è un precipitato, un’avvolgente spirale che si apre all’astratto e all’assoluto, giocando anche con un buio appena schiarito da qualche fessura di luce in cui il danzatore continua sequenze di movimento poi esplose nel chiarore fragrante di una illuminazione più aperta. Partendo da terra, da una posizione forse di preghiera cara all’Islam, Saberi si erge, ruota, rimanda ai Dervishi, esplorando la fatica della scoperta di un corpo, in territori che spesso quello stesso corpo negano, coprono, umiliano.
Meno calibrato, mi è sembrato ancora da sistemare, Suzanne di Lanza/De Carolis. Una brava attrice, Elena De Carolis appunto, alle prese con un testo non facile, ispirato alla Suzanne Adler di Marguerite Duras, tradotto in forma di monologo, alterna momenti di grande pathos ad altri che risentono di ritmi e cadenze forzate. Sospeso quasi tra il melò di La voce umana e certe dinamiche fassbinderiane, Suzanne trarrebbe giovamento da una sferzata nella regia di Andrea Lanza, o da una messa a punto del “crescendo” che legittimasse il finale tragico (e magari di qualche taglio qua e là).
Ma l’evento della serata di Castiglioncello era la dissacrante performance di Ivo Dimchev. Bulgaro, un fisico scultoreo, Dimchev si presenta in scena biondoplatino, una magliettaccia, pantaloncini corti da calcio e tacchi a spillo. Si siede alla tastiera, comincia a raccontare in inglese di curiose idee su un possibile spettacolo dedicato alla “pussy”, in un gioco di composizione di definizioni tali da costruire una special pussy per ciascuno.
Poi, divagando, suonando, ironizzando non poco sul sistema dell’arte contemporanea, Dimchev snocciola il proposito dello spettacolo che sta per prendere vita in scena, P-Project.
Ai lati opposti di proscenio ci sono due tavolini, sui tavoli due laptop, collegati via skype all’ipad del performer. Dimchev dichiara di avere un budget di mille euro, e chiede agli spettatori di contribuire, pagati, allo svolgimento della performance. Cerca “amatori”, non professionisti, non artisti: insomma spettatori qualsiasi.
Prima chiama due “poeti”, che devono scrivere “live and direct” i testi che lui stesso canterà con una bella voce che potrebbe addirittura ricordare Anthony and the Johnson. Poi agli autori aggiunge un danzatore di tiptap o di hiphop (con risultati sorprendenti e esilaranti), infine chiama una “coppia” a baciarsi per un minuto di seguito, sempre accompagnando il tutto con le canzoni improvvisate.
La cosa curiosa è che Dimchev paga davvero, materialmente queste “comparse”: ha affidato la cassa a una spettatrice, a lei il compito di dare 20eu al poeta, 40 al ballerino, 60 al baciatore, e così via. Finita la canzone, lo spettatore-partecipante intasca il compenso e torna a sedersi. La faccenda giunge al suo apice quando Dimchev invita due spettatori a simulare un rapporto sessuale: il compenso è di tutto rispetto, 250euro, molto più alto del cachet che prendono tanti attori. Si fanno avanti volontari: due ragazzi. Dimchev butta a terra un materasso nuovo, chiede loro di spogliarsi completamente, e poi dà il via alla sequenza. Risate, applausi, qualche imbarazzo, domande, dubbi, perplessità, invadono la cavea dell’anfiteatro.
Lo spettacolo non è nuovo, è già stato visto in Italia, ma credo non finisca di stupire. Ivo Dimchev tiene magistralmente le redini del gioco teatrale, ha un disincanto ironico tale da creare immediata confidenza e complicità con gli spettatori (un po’ pochini a dire il vero). Dunque il gioco si dipana, senza scandali per il nudo – ché gli scandali ormai sono ben altri – con divertita e partecipe consapevolezza. Non è un gioco fine a se stesso, anzi. La questione si fa stringente a partire dalla smaccata parodia del sistema dell’arte contemporanea: cosa è una performance oggi? Chi fa arte? E ancora: non è il caso di finanziare direttamente gli spettatori anziché gli artisti, come faceva già notare qualcuno decenni fa? Non sarebbe giunto il momento di verificare quanto il mercato determini il successo degli artisti?
Eppure la questione posta da Dimchev è ancora più sottile: cosa siamo disposti a fare per soldi? Con quanto si compra un uomo è la domanda che aleggia, che si ritorce contro gli spettatori che si sono prestati al gioco (compreso chi vi scrive). Il denaro è il vero oggetto di questa performance, tutta tesa a mostrare che sono ormai poche le vie d’uscita dalla compravendita spiccia, immediata, sistematica. Dietro il gioco, la risata, si cela il dubbio, lo smascheramento, la demistificazione sistematica del paradosso ideologico, la denuncia della sovrastruttura economica che segna il nostro tempo. Nell’arte, nel teatro, nella quotidiana lotta per sopravvivere di tutti e ciascuno.
(L’immagine di copertina relativa a P-Project non si riferisce all’allestimento visto al festival Inequilibrio)
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