Teatro
Un anno di teatro vissuto pericolosamente
Che anno è stato per il teatro italiano? Certo non facile, e dal punto vista economico-amministrativo amaramente scoraggiante. Sotto l’albero si spera di trovare qualche speranza in più per il futuro, bella impacchettata e chiusa con un nastro dorato. I problemi, infatti, non sono tanto legati alla creatività, alla fantasia, alla qualità del teatro italiano – che si sta confermando tra i più apprezzati d’Europa – quanto alle magagne sollevate dalla complicatissima riforma del settore voluta dal Mibact.
Il 2015 è stato l’anno della “grande svolta”. Una svolta che ha quanto meno creato perplessità e complicazioni in un sistema già estremamente povero, messo ulteriormente in ginocchio da finanziamenti scarsi e assegnati con grande ritardo. Mettiamo in chiaro una cosa: il teatro è, deve essere, un fatto di Stato, una pre-occupazione dell’Amministrazione Pubblica al fine di migliorare, qualificare, arricchire spiritualmente e culturalmente la vita dei cittadini, di ogni singolo cittadino. In questo credevamo e continuiamo a credere.
È il vecchio adagio del cosiddetto teatro politico: “Operare per il cambiamento del singolo e attraverso questo per il cambiamento della società”. Insomma, il teatro fa bene a chi lo fa e a chi lo vede. Basti pensare, ad esempio, che recentemente il Ministero per la Pubblica Istruzione ha fatto un bando per investire 2 milioni (una miseria, diciamolo) nel Teatro nelle scuole: hanno partecipato ben 1.700 istituti. Dunque, ci sarebbe anche una voglia diffusa di cultura teatrale, invece, la prospettiva – più che altro sembra una deriva – è di ristrettezze, di tagli, di indistinte mortificazioni.
La riforma ha suscitato molte scontentezze, veicolate da ricorsi, mugugni e proteste. Non tutti potevano essere felici e soddisfatti, ma così si è proprio esagerato: tutti scontenti, o quasi. Sembrano aumentare sperequazioni, le differenze geografiche tra Nord e Sud, con il sentore che si siano favoriti anche i soliti amici degli amici, con ripescaggi improvvisi dopo legittimi tagli o con esclusioni dai finanziamenti, anche gravi, che lasciano molti dubbi.
Ora si spera che il nuovo direttore generale del Ministero Ninni Cutaia, uomo di grande esperienza e lungimiranza, possa metterci le mani e “riformare la riforma”. Su questa linea si sono recentemente espressi anche il Capo di Gabinetto del Ministro Franceschini, Giampaolo D’Andrea e (in un collegamento video da Strasburgo) anche Silvia Costa, Presidente della Commissione Cultura del parlamento Europeo. Intervenuto alla conferenza stampa dell’ATCL, l’associazione teatrale dei Comuni del Lazio diretta da Alessandro Berdini, il Capo di Gabinetto D’Andrea ha affermato più o meno: «Mandateci le vostre osservazioni sul decreto di riforma e noi vedremo cosa si può fare».
Speriamo mantengano la parola, altrimenti, nell’arco di un anno, ne vedremo delle belle (o di bruttissime): il 2016 potrebbe svelarsi ancora più duro dell’anno che sta per chiudersi. Rischia di essere addirittura catastrofico soprattutto per le tante realtà giovani e giovanissime, e duro per tutte quelle attività il cui scopo non sia propriamente “commerciale”. Il teatro – almeno quello che ci piace – è ricerca, è poesia, è complessità, intervento di aree disagiate: elementi questi difficilmente conciliabili con i dati eminentemente “quantitativi” richiesti in gran parte dal Ministero.
Lehman Trilogy di Luca Ronconi (Piccolo Teatro di Milano)
Le possibili linee di correzione sono state suggerite anche da un documento elaborato dalla cosiddetta Commissione Prosa, ovvero quel manipolo di “addetti ai lavori” che si sono presi l’onere di valutare la qualità dei progetti presentati. Critici, operatori, studiosi che compongono la Commissione hanno scritto nero su bianco «nella distribuzione dei 100 punti utilizzati nell’assegnazione dei contributi ai singoli soggetti, appare eccessivo il peso della quantità (e della qualità indicizzata, basata anch’essa su dati quantitativi) rispetto alla qualità artistica, alla quale sono riservati 30 punti su 100 (…) La conseguenza, oltre al peso pressoché irrisorio della qualità artistica nella determinazione del contributo, è la ridottissima possibilità di compensare/ridurre le eventuali distorsioni/squilibri (v. documento integrale)».
Un sistema distorto, dunque? Il rischio c’è, ed è forte. Anche perché se lo Stato latita, Regioni e Comuni sono troppo spesso evanescenti. Fatte salve alcune aree-guida (la Toscana su tutti, poi Emilia Romagna, Lombardia almeno per Milano) il resto è lotta al coltello.
Roma è un caso limite. La città è al tracollo e il suo teatro pubblico e “ufficiale”, ovvero il Teatro Nazionale, che ha gli spazi dell’Argentina e dell’India, sembra sempre sull’orlo del baratro. È di pochi giorni fa la notizia che il suo direttore, Antonio Calbi, ha partecipato e vinto un concorso come dirigente al Comune di Siena. Finirà certo il suo mandato romano, e poi partirà. Buon per lui: complimenti e in bocca al lupo. Ma per quanti l’hanno difeso comunque e dovunque – proprio perché ha cercato di ridare vita, con le unghie e coi denti, al teatrone romano – il gesto è un ulteriore segno dello stato d’abbandono della cultura capitolina. Al punto che il Nazionale – ha detto Calbi in un recente incontro pubblico – rischia addirittura di chiudere i battenti perché non in grado di rispondere alle richieste ministeriali a fronte dei costanti tagli nei finanziamenti locali. Come per tutta la cultura in città, è un periodo faticoso per il Teatro di Roma, inutile negarlo. Al di là del “crack” della “operazione Stein”, con il regista tedesco prima sbandierato come vessillo, poi nascosto sotto il tappeto come la polvere; al di là della inqualificabile condizione in cui versa il teatro India – progetti, soldi spesi e lunghi lavori per ottenere una sala in cui non si vede niente e un foyer che a Bucarest sotto Ceausescu erano più ridenti – quel che colpisce è un Teatro Valle murato vivo.
Non è una battuta: hanno murato vivo il bellissimo teatro settecentesco. Dopo la lunga e vitale occupazione, il Valle è stato “svuotato” dalla Giunta Marino. Sembrava che i lavori di ristrutturazione dovessero cominciare il giorno dopo, e invece è ancora chiuso e abbandonato. Non solo: è stata tirata su una parete, un muro, per separare quella specie di tristissimo foyer colonnato antistante la storica sala. Il Valle è di là dal muro, sbarrato, con i suoi ricordi e i suoi fantasmi. Chi ne risponde? Che ci faranno? Quando riaprirà? Tutto tace, nessuno si sbottona: l’ultimo lancio di Marino diceva che nel 2016 avrebbe ricominciato a funzionare. Ci siamo arrivati.
Avremmo bisogno di una classe politica più efficiente e attenta, lo sappiamo: perché il teatro lo è, e merita uno sguardo adeguato. Lo è dal punto di vista gestionale: i nostri organizzatori fanno i cosiddetti salti mortali per mandare avanti la baracca. Certo, non mancano i filibustieri – ancora ce ne sono in giro – però le aziende teatrali potrebbero essere un modello da studiare. Il miracolo di fare stagioni, produrre spettacoli, accogliere il pubblico, garantire qualità e quantità senza soldi.
Luca Fornari, amministratore delegato di ATCL, durante la citata conferenza ha detto: «Le ritardate/frazionate erogazioni delle “anticipazioni” 2015 del Mibact e della Regione Lazio, hanno influenzato il corretto andamento gestionale dell’attività compromettendo gli investimenti indispensabili per sostenere sviluppo, progettualità e competitività a medio e lungo termine. Aver svolto l’attività del 2015 in assenza di risorse liquidate ha del miracoloso, ma non rimane privo di conseguenze: deprime gli stanziamenti destinati al palcoscenico, la progettualità e la stessa possibilità di operare e rispondere alle esigenze dei singoli operatori, vittime a cascata della totale assenza di liquidità. Per non parlare del rapporto con le banche, di fatto impedito dalla totale indeterminatezza delle erogazioni (oltre che dalla mai risolta questione della non collocazione nella categoria della piccola e media impresa)». Insomma, a teatro si lavora gratis, anche perché i finanziamenti pubblici non arrivano o arrivano in ritardo.
E dunque, questa politica di tagli, di razionalizzazione che non razionalizza, finisce per essere punitiva sempre per gli stessi: ovvero per gli artisti. I quali, notoriamente, latitano. Sono pochi i segnali di indignazione o di partecipazione: una recente chiamata alle armi è stata fatta da Natalia Di Iorio, organizzatrice e direttrice della manifestazione “Le Vie dei Festival”; un manipolo di attori e attrici si è mobilitato (con lo slogan Facciamo la conta, che in qualche modo segue esperienze analoghe fatte negli anni passati); si è pure risvegliato il Sindacato, con delle richieste al Mibact e all’Inps per il riconoscimento giuridico della figura dell’Attore (per ora prevalentemente costretto a partita Iva, senza alcuna tutela previdenziale).
Comunque, nonostante tutto, il teatro italiano va in scena, inventa, continua a creare mondi bellissimi, con slancio e passione. I principali premi dell’anno hanno sancito percorsi consacrati (su tutti il Ronconi di Lehman Trilogy) e aperto a qualche novità.
Premio Ubu, Premio dell’Associazione nazionale Critici Teatro, Maschere Del Teatro, Premio Rete Critica hanno dato indicazioni interessanti: Antonio Latella e Massimiliano Civica, Lino Musella e Roberto Latini, Monica Piseddu e Milvia Marigliano, Antonio Viganò e Progetto Ligabue, Stefano Massini e Lina Prosa, Alessandro Averone e Umberto Orsini, Scannasurece di Carlo Cerciello e Gli Omini, Massimo Popolizio e Fabrizio Falcoe poi ancora Romeo Castellucci, il Festival del “Paolo Pini”… E poi Emma Dante al Premio Duse e ancora altri premi e altri artisti, a testimoniare quanti siano i fermenti della scena italiana. A fronte di questi “nomi”, di questi premiati, ci sono attori, attrici, scenografi, registi, costumisti, musicisti, drammaturghi, danzatori, tecnici, che aspettano solo di poter lavorare serenamente, in un sistema che funzioni. Scriviamolo nelle letterine a Babbo Natale. O è chiedere troppo?
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Nella foto di copertina, Odyssey di Bob Wilson, Piccolo Teatro di Milano, © Evi Fylaktou
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