Teatro
Irma Kohn è stata qui: intervista a Pablo Solari
Debutta in prima nazionale il 23 luglio, in occasione della LXXVI Festa del Teatro di San Miniato, Irma Kohn è stata qui, spettacolo firmato dal giovane regista Pablo Solari, tratto dall’omonimo romanzo di Matteo Corradini, e prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Centro Teatrale MaMiMò, Istituto Fondazione Dramma Popolare di San Miniato.
Lo spettacolo racconta una vicenda storica realmente avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale, seguendo tre linee narrative fortemente connesse e interdipendenti. La vicenda è ambientata a Königsberg, durante gli ultimi mesi di guerra. Una partigiana salva una sedicenne dalla deportazione e la porta in un bordello per nasconderla alle persecuzioni. Irma Kohn, la protagonista, adolescente in fuga dalla violenza della guerra e alla ricerca di sé stessa, vivrà alcune settimane in compagnia delle ragazze nella “casa chiusa”.
Parallelamente seguiamo le vicende di Kat, ebreo come Irma ma impegnato nello Judenrat, il consiglio ebraico che riceve ordini dai nazisti e compila elenchi di deportati. Kat oscilla fra sensi di colpa e autoassoluzione, frequenta il bordello e deve trovare Irma, perché sa che dall’ultimo elenco dei deportati manca una ragazza. Infine troviamo in scena Wolf: ufficiale nazista della prima ora, ha la missione di deportare gli ebrei del luogo per poi guadagnarsi il ritorno a casa, dove lo aspetta la moglie, per cui prova una forte nostalgia. Anche lui frequenta il bordello.
Tre storie unite in uno spazio narrativo nel quale, nel tempo breve della fine del conflitto, il caos regna sovrano e i confini fra bene e male, amici e nemici, oppressi e oppressori diventa sempre più labile. Al centro la ricerca di salvezza, di uno spazio personale della giovane protagonista Irma, adolescente nella storia e allo stesso tempo fuori dal tempo. Abbiamo intervistato il regista Pablo Solari per approfondire la genesi e lo sviluppo dello spettacolo.
Irma Kohn è stata qui nasce come rielaborazione libera dell’omonimo romanzo di Matteo Corradini, ma – come sottolineato anche nella presentazione dello spettacolo – ha subito un’evoluzione, dalla sua genesi all’attuale versione per le scene, molto articolata. Come si è svolto il lavoro di elaborazione e stesura nella “bottega” drammaturgica?
Il testo teatrale e il romanzo in realtà sono nati praticamente insieme. Quando abbiamo deciso di dedicarci, insieme a Tatiana Motta, alla rielaborazione del testo, Matteo Corradini non aveva ancora terminato l’ultima stesura. Abbiamo lavorato sulla bozza, con un percorso sinergico. Si è trattato di un processo che ha avuto tratti di contaminazione nella sua evoluzione: il primo adattamento infatti era terminato ancor prima del libro. Poi è subentrata la pandemia con il fermo forzato delle scene. Questo ci ha da una parte obbligati a sospendere il lavoro teatrale, dall’altra ci ha permesso di rileggere il libro nella sua versione definitiva, rimettendo poi mano all’adattamento. Non è stato un lavoro facile, perché il romanzo presenta tratti marcatamente letterari: gli incroci nell’intreccio, i numerosi personaggi, il sovrapporsi delle vicende rendono la trama non facilmente teatralizzabile.
Anche i temi, sostenuti da un approfondimento storico articolato e curato nel dettaglio, imponevano un lavoro capace di rispettare il testo, ma – allo stesso tempo – di discostarsene per poter raccontare la storia in modo efficace in scena.
Una difficoltà anche formale immagino…
La domanda si è posta da subito: come portare questa lingua così narrativa in teatro? Come recuperare le premesse storiche, l’antefatto, le digressioni all’interno del tempo scenico? Abbiamo deciso di recuperare un elemento centrale del teatro classico, quello del coro: il bordello, le prostitute, un modo che immobile assiste ai cambiamenti del mondo e li chiosa. La loro lingua è diversa da quella degli altri personaggi e consente di recuperare quello che non può essere raccontato in modo diretto sul palcoscenico. Un altra figura che parla una lingua diversa, deviante, è quella del pazzo. La spia russa che, in scena, parla in versi, senza essere capito dagli altri. Quando alla fine avviene la liberazione il coro si esprime in versi, acquisisce la lingua incomprensibile del pazzo. La liberazione non è, lo testimoniano anche le parole, che un passaggio da invasore ad altro invasore. E questo non può che essere espresso dal trasformarsi della lingua deviante in lingua ufficiale.
La prosa dunque diventa quasi poesia…
Si, la parola, grazie al lavoro di Tatiana Motta assurge a elemento corale, trasfigura la realtà, così come la trasfigura, attraverso la metafora della caccia costante, il recupero della favola di Pierino e il lupo. Il gioco di rimandi è costante.
Il tutto si lega a una riflessione sul tema del conflitto, della violenza nelle relazioni sociali, fra i singoli individui…
La riflessione è estremamente contemporanea e allo stesso tempo il soggetto, pur essendo storico, è atemporale. Un altro elemento importante credo sia – ed è così anche nel romanzo – la presenza di un tema quello dello Judenrat, poco conosciuto, una sorta di tabù (gli ebrei che danno la caccia agli ebrei) anche dal punto di vista storiografico. Allo spettatore viene chiesto di sospendere il giudizio morale, di guardare, ascoltare, aprirsi alla storia, entrare in relazione con il racconto e la scena per comprendere davvero sia la vicenda narrata che le sue connessioni con il presente.
Uno sforzo importante, soprattutto se pensiamo al pubblico giovane a cui, in particolare, lo spettacolo è rivolto…
Sì è uno sforzo importante, ma fondamentale anche per un percorso di crescita e maturazione. Il fatto che la protagonista sia una ragazza, a metà strada fra l’infanzia e l’età adulta, che viva in un contesto difficile e debba lottare non solo per la sopravvivenza, ma anche per la difesa di sé stessa, della sua identità, credo sia centrale.
Anche l’elemento femminile sembra avere un ruolo chiave…
Sì, ci sono molte sfaccettature di femminile in questo spettacolo e forse proprio in questo non voler “chiudere” in uno spazio specifico il ruolo della donna, trova senso questa forte presenza. Le donne sono vittime e carnefici, sono giudicate e giudicano, compiono un percorso di crescita personale (anche in materia di vicinanza, solidarietà femminile) all’interno del bordello. Le protagoniste in un certo senso crescono, si evolvono, in un gioco di specchi fra loro, nel racconto delle loro storie. E il femminile resiste, letteralmente, alle tante pressioni esterne della storia.
Lo spettacolo è rivolto soprattutto ai ragazzi dicevamo. In cosa questa storia può essere per loro attuale?
Penso nell’esposizione di tanti punti di vista, nella trattazione del conflitto come qualcosa di sfaccettato e non bidimensionale, nell’ansia di sopravvivenza che permea tutta la narrazione e allo stesso tempo nella paura di vivere che esprimono molti dei personaggi. Poi c’è un’altra questione: quella del ritorno in teatro dopo anni di lontananza. I ragazzi hanno subito più di tutti l’isolamento della pandemia. Questo spettacolo è un recupero del rapporto in presenza con il corpo, con lo spettatore, con loro, così come per noi è stato il recupero di un entusiasmo per questo lavoro che, a causa del fermo forzato, sembrava quasi essersi spento terminata la prima stesura. Un momento corale per dare significato alla loro esperienza, al nostro lavoro, a quello che abbiamo vissuto.
Ph. Soheil
IRMA KOHN È STATA QUI
di Matteo Corradini
Dramaturg Tatjana Motta
regia Pablo Solari
Collaborazione alla regia Woody Neri
con Francesco Aricò, Maria Caggianelli Villani, Maria Canal, Valentina Cardinali, Luca Mammoli, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Woody Neri
Scene Maddalena Oriani
Costumi Marta Solari
Sound designer Alessandro Levrero
Luci Fabio Bozzetta
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Centro Teatrale MaMiMò, Istituto Fondazione Dramma Popolare di San Miniato
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