Teatro
Inequilibrio, Lucia Calamaro e la crisi della sinistra
Come si fa a non mettere tutto assieme?
La recente lettera appassionata e dolente di Lorenzo Donati su Altrevelocità, che si chiede, come tanti, ma chi ce lo fa fare, e l’intervento lucido (e non meno appassionato) di Emmanuele Curti che prova a inventare una comunità nuova, seguendo l’utopia?
Come non mettere assieme i festival che aprono contando sul lavoro solidale degli artisti – perché vengono meno i fondi, come accade a Lari per Collinarea, o a Terreni Creativi, che vive ad Albenga con una sottoscrizione popolare – con quelli che si sono già svolti tra vip e cotillons o quelli da “discoteca” appena inaugurati?
Come non confrontare quanti firmano un appello a favore del decreto ministeriale considerato illegittimo dal Tar (ci sono sempre, i più realisti del re: è ricostruito tutto qui) con l’associazione Facciamolaconta che si appella alla solidarietà di settore? Come non mettere assieme la richiesta per la Legge Bacchelli a un autore e poeta come Antonio Tarantino, forse tra i maggiori d’Italia, con la scomparsa di Valentino Zeichen?
In questa confusione, una notizia fa ben sperare: nelle varie e disparate giunte comunali che si sono formate dopo l’ultima tornata elettorale, possiamo contare su tre validi assessori alla cultura in città importanti come Milano (con Filippo Del Corno, giustamente riconfermato dopo l’ottimo lavoro fatto), Bologna (con la splendida nomina di una “teatrante” quale Bruna Gambarelli) e Roma (con Luca Bergamo tra i primi nominati del difficile percorso che attende la sindaca Raggi).
Ma, insomma, iI teatro italiano, in questi ultimi mesi, ha dato segni di nervosismo, di squilibrio, di fiacchezza, di scontentezza, addirittura di sfascio totale, eppure con guizzi di genialità, di resistenza caparbia, di slancio propositivo.
E mentre c’è chi si ostina a fare critica (e c’è anche chi si affaccia a questo non-mestiere, aprendo nuovi spazi: ad esempio crescono velocemente Paperstreet.it e Scenecontemporanee.it, e si fa leggere bene, nella zona di Parma, il nuovo teatropoli.it) c’è pure da portare avanti una riflessione – tendenzialmente alta e libera, almeno ci si prova – su quanto avviene in scena. E per fortuna ci sono spettacoli che stimolano al pensiero, al confronto, che lasciano dubbi e domande aperte. Io ad esempio, me ne sto portando dietro tre, e prima o poi dovrò darne conto. Il primo è un’Odissea, capitolo iniziale di una trilogia del mito con la regia di Matteo Tarasco visto mesi fa al Quirino; poi c’è stata una intensa Elettra, diretta con piglio sicuro dal bravo Giuliano Scarpinato (che sarà il 17 a Calcata, splendido borgo poco distante da Roma, per il festival AdArte) e infine il recente “primo studio su I e II atto di La Vita Ferma: Sguardi sul dolore del ricordo; Dramma di pensiero in III atti”, di Lucia Calamaro, visto recentemente al festival Inequilibrio di Castiglioncello. E comincerei proprio da quest’ultimo.
Nella bianca sala che ha ospitato il lavoro, chiaramente in progress (ne hanno già parlato Attilio Scarpellini e Tommaso Chimenti), eravamo una ventina tra operatori e critici, molto meno, o quasi nessuno, gli spettatori “normali”. Mi sembra un dato emblematico da cui partire anche perché – indirettamente, e forse non volutamente – la ricerca drammaturgica di Calamaro parla anche di questo, ovvero del fallimento di una certa cultura. Questo La vita ferma, infatti, l’ho vissuto come una grande metafora di tre catastrofi individuali, che girano, a vuoto, attorno ad una sola e si fanno declino collettivo.
La storia, per come la vedo, è quella di un uomo, padre di famiglia, la cui moglie muore prematuramente per malattia. Mi ha interessato di più, infatti, concentrarmi sulla figura maschile di quello strano triangolo messo in scena da Calamaro: strano, perché c’è lui, l’uomo, che non riesce a fare i conti con la morte della moglie, la quale dunque è (iper)presente in scena, con la sua logorrea, con i suoi vezzi, con i suoi piccoli e grandi ricatti. Accanto ai due, vi è una figlia, quasi condannata alla presenza, e mai veramente cresciuta.
Negli slittamenti temporali, nelle fantasmagorie individuali, i tre non riescono ad agguantare la realtà, che sfugge continuamente (sono in un perenne trasloco, in un cambio di casa che è condizione esistenziale più che logistica).
Lui, l’uomo, semplicemente la rifiuta: non accetta la scomparsa, l’essere rimasto solo; lei non accetta la morte e torna incombente; la figlia evoca la morte ma non va da nessuna parte, imprigionata com’è in quella gabbia dorata che è la famiglia.
Calamaro ritrae una famiglia borghese, intellettuale, radical chic: completamente autoreferenziale, con le sue tante citazioncine giuste: Ricoeur a iosa, ma il libro che il protagonista deve scrivere non vedrà mai la luce, poi Benjamin come se fosse acqua; e ancora Loie Fuller, nel sogno estetizzante della donna insegnante di danza, ancorata a un passato mitico che non tornerà. Quella borghesia di sinistra, salottiera e snob, ritratta a suo tempo da Moretti (ricordate La stanza del figlio?) che non sa il mondo fuori.
Tutto è introiettato, tutto è verbalizzato, ossessivamente, in una (in)felicità benestante, in cui vengono macinate anche le torture della morte. Così, quando l’uomo si ritroverà, con la figlia, a pregare in chiesa, novello Admeto dell’Alcesti di Rilke, chiede semplicemente di spostare il brutale avvento del reale (“anni chiedeva, un solo anno ancora di giovinezza, oppure mesi, settimane…”) quasi che l’unico rimedio si dilazionare, disconoscere, posticipare.
Qui è bravissimo e commovente Riccardo Goretti, il cui accento toscano demistifica tutto, smorzando toni e voli pindarici di cui pure il testo è infarcito. E con lui Simona Senzacqua che dà all’invadente e insopportabile personaggio della madre (una che parla anche quando tace, con quelle espressioncine, quei versi, quei borbottii sempre alla ricerca dell’ultima parola) una parvenza di umanità, in quello “stile” reso inconfondibile da un gigante del teatro italiano qual è Daria Deflorian.
Sono loro a tessere la cornice della coppia: e sono gli emblemi di questa catastrofe culturale della sinistra.
Incapaci a tutto, con il loro carico di inutile sapienza: ed è qui, mi pare, che potremmo dare una lettura politica all’esistenzialissimo dramma dell’autrice. In effetti, ci stancano presto le peregrinazioni dell’elaborazione del lutto, le tragicità posticce e tutte celebrali di una vicenda in cui il brulichio verbale intellettual-borghese tutto e tutti travolge. Non fanno niente, questi personaggi: e se pure padre e figlia (Alice Redini) cercano la fuga nel suicidio, rimarranno inappagati. Si aspetta qualcosa, in La vita ferma. Ma non arriva: né per i personaggi, né al momento per il pubblico (aspettiamo dunque il terzo atto).
Così declina – ed è declinata – la sinistra in Italia, nel parossismo di chi si è arroccato, compiaciuto, nelle proprie narrazioni. Allora possiamo fare un ragionamento grossolanamente meta-teatrale? Non è, non può essere La vita ferma, anche una grande metafora del nostro teatro?
Se a uno spettacolo di un festival importante, gli spettatori “normali” sono in proporzione decisamente inferiore a quelli “professionali” non dovremmo, tutti, chiederci il perché? Un un festival come quello di Castiglioncello, che ha momenti interessanti (divertentissimo il racconto a puntate sui Tre moschettieri di Sacchi di Sabbia) non meriterebbe maggior riscontro pubblico?
Il ragionamento, lo so bene, è viziato: sono il primo a contrastare il “botteghino” a tutti i costi voluto dal recente decreto di riforma. Seppure abbiamo consapevolezza del problema, fatichiamo ad uscirne: la domanda – parafrasando Lacan – è “ma il reale dov’è?”.
Devi fare login per commentare
Accedi