Teatro
Inequilibrio Festival: una serata tra i greci
Un racconto poetico (acritico e sentimentale) su due lavori visti il 5 luglio a Inequilibrio Festival, diretto da Angela Fumarola a beneficio di un’ottima proposta che accoglie teatro, danza e performance assieme ad incontri con autori e loro pubblicazioni.
Prima quello che hanno in comune i due spettacoli: una personalità forte e composta, un lungo tempo scenico alle spalle, l’assenza di compiacimento. E soprattutto i Greci, nel teatro e nel mito e nel pensiero.
Ho visto due lavori abilmente accostati in un giorno di festival dove mi convinco sia emersa la resistenza dell’attore, nel disincanto inarreso ai tempi, che si affaccia a un pubblico sempre famelico, bisognoso di dar voce e sensi all’indicibile che oscuramente opprime.
Quotidianacom e Giovanna Daddi (Teatro di Buti), gli uni di seguito all’altra scendendo la costa livornese da Rosignano fino ai merli di Castiglioncello, dal teatro Nardini alla Sala del Ricamo di castello Pasquini.
Parto dai Quotidiana, seguiti dal 2009 con crescente convincimento. I Greci, gente seria, come i danzatori è il titolo del lavoro. Succede questo, quando vedi gli stessi attori per oltre dieci anni calcare il palcoscenico con i loro corpi e le loro parole resistenti: si crea una sola lunga storia senza trama e senza personaggi, dove risalta infine un particolare stato della coscienza e dove questa – che dopo tanto ancora attinge – trova temporanea dimora. Allora un fremito d’occhi o una contrazione di labbra, un silenzio scultoreo, un gesto quotidiano, un balzo di ballo, rispondono a una simpatia stabilita per sempre, a un assoluto personale, contro ogni avversità e ogni fastidio. Così è accaduto anche in questo nuovo lavoro di Roberto Scappin e Paola Vannoni vincitore del Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche “Dante Cappelletti” 2022.
I Quotidianacom (foto di copertina e sopra di Michele Tomaiuoli)
I due attori portano la novità del ballo a spasso per tutto il palco e questo sorprende da parte di chi ha messo l’attore a prova di quasi assoluta stasi; qui si balla alla Gene Kelly a perdifiato, sul crinale tra farsa e performance danzante; l’ansimo di Scappin conferisce pathos al pathos, mentre la compagna è più contenuta, si muove leggiadra, scanzonata in sincronico accordo con la controparte. Soli nelle loro moltitudini, sovresposti a luci calde e potenti, al cospetto di un lampadario che si fa sismografo e due bottiglie d’acqua simbolo di trasparenza, nella musica e nel ritmo di un dialogare per frammenti, senza melodie, in un allegro-ma non troppo-andante concerto per parola e ansimi; i due ballano in progressione di intensità, ma questa danza è la punteggiatura, è il margine letterario della parola che vola, balla e traballa a sua volta, che respira, sospira e spira prima di un altro guizzo impertinente. Ormai famosi (e fumosi vedremo) gli afflati languidi di Roberto Scappin verso la consorte che fedele a una felina femminilità, non cede mai a piena condiscendenza. Ferina e leggera, pare a suo agio nella selva intricata dei loro incontri sul palco e nell’empireo dei pensieri. Gli interrogativi, gli aforismi, le boutade, ma anche i paradossi, gli aneddoti, gli assurdi innesti biogenetici fino alla tessitura di teorie vegetali e animali, s’intrecciano al quotidiano sovra-umano del duo, velati da modulazioni timbriche che danno il tenore della disillusione ma anche della durata di quegli inesausti sipari. Passano in rassegna calzini gialli, arti sincroni e sbilanciamenti d’addome; bocche tese e occhi sgranati, muscoli taurini e tendini da cerva; terremoti dall’alto e mele porte a un pubblico che laddove inesperto è già smarrito dentro un viaggio agnostico che dai sapienti greci giunge ai metalli algidi dei Placebo, in un finale tripudio fumogeno che mentre tutto copre, disvela impeti mai sopiti, promette altre danze in forma interrogativa o esclamativa. L’ontologia, il potere, lo stato di natura e la natura del nostro stato (di cose), la sollecitazione al pensiero a colpi di rapsodiche scariche di humor, le profezie degli avi e di tutto ciò fare un gioco sì, ma rigoroso: di questa materia striata sono fatti gli inafferrabili Quotidiana. Il gioco si fa serio, lambisce il maniacale, quel giocar arguto che smaschera, che dai greci ad oggi è valso a salvarci dalla pazzia e dallo smarrimento mortale.
Giovanna Daddi (Foto da Armunia)
Eccomi a Ecuba, la cagna nera, un lavoro ispirato a Le Troiane di Euripide, prodotto da teatro dei Buti. Anche qui una storica coppia davanti a stratificate ribalte, Giovanna Daddi e Dario Marconcini alla regia e a dar corpo al “colpo di scena” del finale. Ma è la mia prima volta davanti a loro, c’è congestione di sensazioni ancora in movimento; resto colpito dall’intensità della protagonista china in proscenio, in prostrata disperazione muta per lunghi minuti davanti a una fitta platea su poche sedute in penombra, sotto lo sguardo delle calde losanghe che piovono nel semibuio della sale. Lei, Ecuba, si copre il volto con palmi percorsi d’intenso. Su quelle mani che scoprono il dorso fino alle vene, affiora tutto il dramma che questa rielaborazione da Euripide condensa in scena. Si scopre il volto bruno, stagliato nel nero panno che lo contorna e risalta gli occhi vibranti dell’attrice; già prima che irrompa la voce, giungono ondate di grida remote. Giovanna Daddi più che recitare ospita lo spirito di Ecuba, citando e dando corpo alle parole tradotte e tramandate nei secoli. Ecuba madre regina sfregiata giunge a noi dalla gola dalle braccia e dalle orbite di una donna che riesce a con-cedersi al tempo e al dramma classico, come citando versi, richiamando a sé le parole del drammaturgo greco rielaborate assieme al compagno regista. Attrice che accoglie, che con-cede, oltre alla recitazione in sé, forte di una tecnica assimilata, partecipa del e rimette in circolo il dramma classico in uno dei suoi archetipi femminili. Così qui si cerca di ricreare una coscienza smossa dal teatro sulla superficie quieta dell’assuefazione generale; più che recensire, si vuole “dire un sentimento” generato in scena poi diffuso.
E’ finita, Ecuba è condannata, fatta prigioniera; resa schiava ora latra di un dolore che canta anche Dante e giunge a noi, cagna nera che risplende però nel mito. A un tratto, alto e canuto, il regista si solleva tra gli spettatori e “grida al reale”, infrange l’incantesimo e ribalta il classico nel presente del qui e ora, riaffermando la persona sul mito, la sua compagna sull’attrice. Uno scroscio di applausi imperversa a conferma di quanto intenso sia stato il viaggio.
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