Teatro
Inequilibrio, cap III: lo scandalo del corpo
«Che peccato», ripete ossessivamente Roberto Latini alla fine del suo intenso attraversamento del Cantico dei Cantici. E, per come la modula, appare chiaro che in questa espressione vi siano quanto meno due accezioni: la prima è un modo di dire abituale che potremmo tradurre con “che dispiacere”; la seconda, più morale, entra nel merito del gesto “peccaminoso” ossia contrario alla morale. Il guaio è che, come ha detto Karl Kraus, la “morale corrente è criminale, produce criminali”. Ossia è sempre moraleggiante, impositiva, coercitiva e dunque ricattatoria. Mi tornava in mente assistendo a un altro lavoro programmato dal Festival Inequilibrio di Castiglioncello, lavoro che ha seguito quello di Roberto Latini. Sto parlando di Studi verso Luciano, ecografia di un corpo, “spettacolo in formazione” – così recita il sottotitolo – che Danio Manfredini ha presentato al numeroso pubblico che ha letteralmente affollato ogni appuntamento della manifestazione. Luciano segna un bel ritorno di quel maestro che è Manfredini. Un ritorno ai temi a lui cari: la marginalità, l’omosessualità, il desiderio, la disperata non rassegnazione. È un “dio delle piccole cose”, quello che anima la minutaglia umana tratteggiata da Manfredini, fatta di delusioni e passioni, un dio che illumina di candore e pudore la pulsione sessuale e le derive di perdizione. Anime candide e sole, pure nella loro innocente sfrontatezza, ingenue nei loro desideri: marchettari, travestiti, masturbatori di bagni pubblici, sono poeti e sognatori, sono “casalinghe” alle prese con il pranzo di natale, sono disagiati spinti a una calma e ironica osservazione di sé e del mondo. In Luciano, il regista e autore si autocita, ed evoca chiaramente uno spettacolo di grande successo di qualche anno fa, quel Cinema Cielo rimasto memorabile affresco di un’epoca e di una città, Milano, vissuta nei suoi anfratti più oscuri e spesso contraddittori.
Ma, rispetto a quel lavoro, che ricordo tratteggiato di una ritrosia addirittura candida, oggi si avverte maggiore sfrontatezza, modi più spicci, linguaggi più espliciti, un segno dei tempi che Manfredini ha, credo, voluto evocare pur sempre con il garbo che lo contraddistingue. Forse è qui lo stacco, la distanza rispetto a Cinema Cielo: mettendo in scena lo stesso milieu, ritrovando quasi gli stessi personaggi di allora, sentiamo, avvertiamo come tutto si sia radicalizzato. La solitudine è più aspra: e il protagonista che osserva – tra il morboso e l’incantato – due uomini che si baciano, fa esplodere ancora di più il disperato bisogno d’amore. Siamo sempre qua, sembra dire l’autore, eppure ancora più soli rispetto ad allora. In scena, Manfredini è magnetico come sempre: con quel suo modo di camminare sospeso, con quel suo strascinare le parole, con quel suo ingenuo e lirico dire le poesie dei grandi classici italiani che diventano frammenti di purezza per spiegare il proprio tempo. Accanto a lui, i compagni delle avventure e sventure narrate, che si prestano a calzare stranianti maschere per dar voce e corpo a quel pullulare umano, umanissimo, che fa da tessuto, da contraltare, da specchio alle devastanti considerazioni di Luciano. E sono bravi Vincenzo Del Prete, Ivano Bruner, Giuseppe Semeraro, Cristian Conti a seguire, assecondare, incarnare il percorso compositivo del regista e attore. La solitudine si misura rispetto agli altri, sembra dirci questo Luciano. E non c’è peccato, non ci sono peccatori, in questa storia: semmai si avverte il grande dispiacere (ma “che peccato”…) di vite sperse, grandi nella loro piccolezza, addirittura eroiche per come cercano il contatto, l’amore, il sentimento anche in un cinema porno. Nulla di peccaminoso in quelle carezze languide, nulla di perverso in quegli sguardi ingenui e vuoti, nulla di morboso in quel bisogno di amore: i corpi sono là, magari piegati, segnati, spelati, oppure turgidi e giovani, comunque ancora bramosi di vita. Ancora lo spettacolo è dichiaratamente da terminare, da definire: ma se questo è il percorso, assisteremo a un Cinema Cielo, che fu premio Ubu 2004, rivisto in una prospettiva di oggi. Passati quasi quindici anni, lo scandalo irrisolto è ancora, più che mai, la solitudine.
Sono corpi, allora, a far da ulteriore filo conduttore al Festival Inequilibrio: corpi che cercano una verità interpretativa e una adesione totale al tessuto emotivo o narrativo. E il corpo è al centro dell’indagine che Silvia Gribaudi dipana nei territori della danza. Corpo come segno politico, come riflesso del tempo, oppure come feroce denuncia di prospettive culturali e sovrastrutturali del nostro tempo. In R.osa – 10 esercizi per nuovi virtuosismi, Gribaudi trova la complicità di una performer come Claudia Marsicano che non esita a giocare la propria fisicità per attivare un discorso ironico e critico sul culto dell’immagine e della personalità. Viviamo e subiamo modelli estetici irraggiungibili. Complice photoshop, l’immaginario collettivo è subissato da donne e uomini di esasperata bellezza: basti pensare all’ultima campagna immagine di una nota marca di biancheria, con una donna che campeggia, col suo spropositato seno, in tutte le città italiane. Passivamente ci adeguiamo a esempi irraggiungibili per la loro conclamata impossibilità: corpi perfetti, irreali, nuovi imperativi categorici di un “dover essere” che immediatamente si traduce in subitanee frustrazioni colpevolizzanti. Su tutto questo, o forse contro tutto questo, si muovono Gribaudi e Marsicano. Prendendo a spunto le vecchie lezioni di aerobica di Jane Fonda, Marsicano evoca in perfetto inglese i dieci esercizi di virtuosismo. Fa danzare il pubblico, fa ridere, fa eseguire esercizi “regali” di respirazione. Il tutto, ovviamente, condito di aspra autoironia. Se lo spettacolo fosse costruito su un corpo altro, probabilmente il gioco verrebbe meno: ma il fatto che Marsicano presti la propria corposa fisicità a questa narrazione implica una posizione scomoda per lo spettatore. Che, inesorabilmente, cade in contraddizione, applaudendo (e svelando) i propri stereotipi, i condizionamenti, i modelli culturali: o mostrando entusiasmo eccessivo, oppure tenendosi ben distante dall’operazione sottesa a R.osa.
In effetti, Marsicano fa sfoggio di virtuosismo (basterebbe la mimica facciale finale sulla canzone Toxic di Britney Spears), ma è soprattutto nella sottile “presa per il culo” – mi si passi l’espressione certo non critica – dello spettatore che si gioca il lavoro. Lei è acutamente consapevole della trappola che sta tessendo e che scatta inesorabile. Qui non c’è il balletto di Doris Urlich o la danza di Alessandra Fabbri (ad esempio in Mangiare bere letame e morte), semmai un progetto di critica sociale, di demistificazione dei meccanismi di adesione e consenso, di prestazione e successo. E se pure qualcosa, nella resa scenica, potrebbe essere aggiustata e migliorata, la prospettiva di indagine e ricerca di Gribaudi e Marsicano sembra urgente come non mai.
Entrambi gli spettacoli, Luciano e R.osa, sono prodotti – con altri partner – da La Corte Ospitale: un bel segnale per il centro emiliano.
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