Teatro

Individuo Vs Società? Le domande del Festival Vie di Modena

16 Marzo 2019

La manifestazione che ha invaso pacificamente le piazze di tutto il mondo, legata allo sciopero in favore di politiche ambientali più attente e consone, è un segnale di grande importanza. Di fatto, gli ultimi tempi avevano – e hanno – segnato un radicale ritorno all’individualismo, alla prospettiva singola, in tutte le sue forme: dalle privatizzazioni alla competizione esasperata fino alle nuove e vecchie religioni, con radicalizzazioni violente o meno, viviamo sospesi tra bisogno di affermare noi stessi e comunità, tra avarizia e condivisione, tra introspezione e comprensione, tra egoismo e empatia.

Anche il teatro registra questa dicotomia: da un lato spettacoli sempre più “partecipati”, riti laici e collettivi che si propongono di volta in volta come fine la creazione di una socialità rinnovata. Un teatro, che potremmo indicare anche come “politico”, legato cioè alla elaborazione di un modello di polis contemporanea.

Dall’altro, invece, un ripiegamento sensibile sul privato, sulla dimensione sentimentale, sulla ricerca affannosa e spesso disperata di una identità personale. Sono due facce, probabilmente, della stessa medaglia.

D’altronde, come sosteneva il compianto Massimo Castri, nel suo lavoro di ricerca sul teatro politico: il teatro politico intende contribuire al cambiamento della società attraverso il cambiamento dell’individuo. Lezione, questa, da non riprendere e rilanciare.

 

“I am Europe” di Falk Richter

Ci pensavo a Modena, nelle giornate dedicate al Festival Vie, di cui ho già dato parziale conto qui. A fronte di molti spettacoli che affrontano apertamente le tensioni del vivere collettivo, altri sembrano cercare altre mediazioni, spingere cioè verso diverse analisi, impregnati come sono di una spasmodica, millimetrica, attenzione agli umori, agli stati d’animo, alle sofferenze e alle aspirazioni del singolo individuo.

Emblematico sembra il caso del drammaturgo e regista tedesco Falk Richter che, assieme al coreografo Nir de Volf e al drammaturgo Nils Haarman, ha presentato I am Europe, prodotto dal Teatro Nazionale di Strasburgo con altri partner. Il lavoro, che aveva visto un primo studio alla Biennale teatro di Venezia diretta allora da Alex Rigola, è arrivato a compimento ed è una riflessione, tra il personale e il collettivo, sul claudicante concetto di “Europa”. Sono infatti gli otto bravissimi e generosi performer sulla scena dell’Arena del Sole di Bologna, a svelarsi intimamente e contemporaneamente ad affrontare temi di stretta e aspra attualità. Sono di lingue, etnie, culture diverse, eppure sono loro – giovani, disinvolti, aperti, complicati, fragili – la rappresentazione più viva di quel che potrebbe (o avrebbe potuto) essere l’Unione Europea. Proprio come i giovani scesi in piazza per l’ambiente, sul palco di Falk Richter si muove una umanità varia, sessualmente liquida, indipendente, intelligente. E rivendicano e ricordano al vecchio continente quel primato nel welfare, nel rispetto dell’individuo, nella cura e nelle garanzie dei diritti personali e collettivi troppo spesso messi in discussione. Un po’ à-la Ricci/Forte, anche qui gli interpreti parlano di amori, di coppie, di famiglie a tre, di ricordi di infanzia, di paesi che non esistono più come la Jugoslavia; raccontano di sé, di sogni e ambizioni, di progetti e di fatiche quotidiane e diventano così simbolicamente rappresentanti di una generazione e di un modo di stare al mondo.

 

“I am Europe”, foto di Jean Louis Fernandez

Accanto a qualche momento di sdrucciolevole retoricità ve ne sono altri, tanti, di convinta serietà, prese di posizione anche aspre si alternano a commoventi confessioni, a semplici, struggenti, piccole tracce di vita quotidiana. Da citare i protagonisti di questo affresco personalissimo e corale: Lana Baric, Charline Ben Larbi, Gabriel Da Costa, Mehdi Djaadi, Khadija El Kharraz Alami, Douglas Grauwels, Piersten Leirom, Tatjana Pessoa. Sovranazionali, multilingue, genderfluid, metrosexual, fragili e fortissimi: semplicemente, senza tabù né perversioni, senza imposizioni o bigotte repressioni. Si ride con I am Europe, ma alla fine il messaggio è chiaro: stiamo attenti, perché perdiamo libertà, speranze, futuro. La possibilità, in sostanza, di essere semplicemente quel che siamo.

 

“Failing to levitate my studio”, regia Dimitris Kourtakis

Tutt’altro l’approccio dell’attesissimo Dimitris Kourtakis, che arriva dalla Grecia con già un coro di fan pronti ad aprirgli le strade dei maggiori festival internazionali. Kourtakis ha presentato a Modena Failing to levitate my studio, fantasia beckettiana in architettura possente dello stesso regista che cura anche la drammaturgia assieme a Eleni Papazoglou e Anastasia Tzellun. Il lavoro è un ambizioso e voyeuristico attraversamento di suggestioni claustrofobiche del Samuel Beckett romanziere, un flusso di coscienza e movimento ripreso live dalla telecamera, all’interno di una macchina “spopolatrice” spaccata da fessure e dinamiche interne apparentemente assurde, prive di logica. Il performer, un ottimo e generosissimo Aris Servelatis, camicia bianca e pantaloni neri alla caviglia, si arrampica, si storce, si infila, striscia, si ribalta, si piega, si allunga, apre e chiude un armadio, si sdraia, scava, dice, tace, respira chiuso nella bianca gabbia-casa a due piani e tante nicchie, che è limite e orizzonte. Il tutto in diretta, con immagini proiettate giganti sulla parete frontale ed esterna della struttura stessa.

 

 

Insomma un Io-non-Io all’ennesima potenza, un racconto che sarebbe piaciuto a Krapp, almeno fino a quando funziona il microfono. Perché il fatto è che questa superconcettuale costruzione scenica è schiava della sua stessa tecnologia (e se non funziona è la fine, metafora peraltro molto beckettiana). È frutto – almeno a me è sembrato – di un accurato studio talmente celebrale, esteticamente perfetto, da far pensare di essere costruito, a tavolino, proprio per stupire ed avere successo, magari oltralpe seguendo gusto e tendenze che potrebbero piacere alla scena francese sempre in cerca di novità esotiche. Per quel che mi riguarda, insomma, sono rimasto un po’ freddo di fronte a tanta imponenza. E l’immagine dell’io che ne esce, visivamente anche conturbante ma così ripiegato su se stesso, rischia di non spostare più di tanto, di non aggiungere nulla a quel che scriveva, decenni fa, Samuel Beckett.

Resta da dire di Strange Tales, attraversamento delle scritture più note di Edgar Allan Poe ad opera della regista, traduttrice, musicista, videomaker, cantante Violet Louise. In un impianto stretto dalla tecnologia, si staglia, immobile al centro, la straordinaria attrice Aglaia Pappas – una delle maggiori interpreti greche e non solo – circondata letteralmente da stazioni tecnologiche agite dal vivo dalla Louise. Sul fondo, proiezioni continue danno la temperatura emotiva di questo affondo nel nero più nero di E.A.Poe. Le sue pagine sono evocate, dette, gridate, interpretate o addirittura cantante, in un viaggio che è scandaglio negli abissi dell’anima.

Aglaia Pappas (in primo piano) e Violet Louise in “Strange Tales”

Anche in questo caso, insomma, vi è il tentativo di specchiarsi nelle perversioni e nelle tensioni dell’individuo, stavolta violento, allucinato, impaurito: visioni notturne, incubi, ossessioni si riverberano ad ogni passaggio di questo ritratto oscuro. Ma l’impianto, che pure decolla quando Aglaia Pappas riesce a distendere il suo talento di interprete, si sovraccarica strada facendo di segni che Violet Louise impone alla narrazione: elettronica, suoni e rumori, canzoni, immagini, invadono lo spazio saturandolo oltremodo, in un horror vacui che lascia poco respiro a quei momenti attorali più intensi, rendendo sterile la sovraccarica macchina scenica.

Insomma, il dilemma che ci portiamo a casa, dopo questi spettacoli offerti dal Festival Vie è antico: quale mediazione tra pubblico e privato? Abdicare al Sé a favore del Noi oppure salvaguardare una parte di personale a fronte del collettivo? Viviamo tempi amari, bruschi, che fanno apparire vana qualsiasi sia la nostra scelta. Eppure resta aperta la questione: contribuire al cambiamento della società attraverso l’individuo è un obiettivo cui non possiamo, ormai, rinunciare. In fondo, in questa Europa potremmo essere più liberi di quel che ci fanno credere: basta ricordarcene…

 

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