Teatro

In spiaggia all’alba: c’è il teatro!

16 Ottobre 2016

Vivo una sorta di “cordiale diffidenza” nei confronti del bravo Mario Perrotta. I suoi spettacoli – ne ho visti spesso in passato – sono sempre lì lì per convincermi, ma poi mi lasciano una sorta di amaro in bocca, un vago senso di insoddisfazione. Ne riconosco il valore, la qualità, le doti attorali, registiche e financo organizzative, ma ho spesso avuto la sensazione che Mario fosse troppo consapevole del suo talento e rischiasse, dunque, di farne eccessivo sfoggio. E questo mi lascia perplesso.

Con simili avvertenze d’animo, sono andato però fino in Puglia per seguire un progetto monstre che Perrotta ha organizzato, in modo impeccabile (anche grazie al lavoro di Silvia Ferrari dell’associazione Permar, della cooperativa Coolclub, di partner pubblici e privati  e di uno staff generosissimo e attentissimo).

Mario Perrotta, foto Luigi Burroni
Mario Perrotta, foto Luigi Burroni

Si tratta di VersoTerra – a chi viene dal mare, un viaggio in tre puntate, da vivere anche in più giorni, dedicato alla migrazione e ai migranti. Il lavoro è complesso, è già stato ben recensito (qui gli articoli di Massimo Marino e Tommaso Chimenti) e dà adito a più d’una riflessione.

Per quel che riguarda uno sparuto gruppo di critici, di cui facevo parte, è stato un tour de force. Sveglia alle 4 di mattina, contingentati su un pulmino siamo arrivati sulla spiaggia di San Foca, a Marina di Medugno; poi, dopo una pausa, ancora in pulmino per andare alla baia di Porto Selvaggio, verso il tramonto; e infine, passate un paio d’ore per attraversare il Salento di costa in costa, eccoci stremati all’insenatura di Acquaviva, poco distante da Castro, per il monologo conclusivo.

L'alba, foto di Luigi Burroni
L’alba, foto di Luigi Burroni

Luoghi incantevoli, effetti luci da Dio (è il caso di dirlo: l’alba con l’Albania sullo sfondo è incredibile), ma un freddo cane, vista l’umidità e il vento di mare. Coperti come Amundsen al Polo Sud, abbiamo assistito a qualcosa di complesso e profondo, di ironico e graffiante, di toccante e emozionante.

Al di là dell’esito scenico, però, il dato su cui vorrei riflettere è il “teatro fuori dal teatro”. Ovvero l’uso di ambienti naturali, iperconcreti, per mettere in scena una vera-falsa ricostruzione della realtà.

Ad esempio, nel nostro caso, ecco che, nell’alba salentina, assistiamo a uno sbarco di clandestini: gommoni veri, urla vere, tensione autentica, ma sbarco finto. Intendiamoci, il teatro fuori dal teatro si è sempre fatto: dai sagrati delle chiese per i Misteri alle collinette dei paesi per le sacre rappresentazioni, fino a quando Evreinov, Kugel e Petrov, a Leningrado, misero in scena La presa del Palazzo d’inverno, con 15mila tra attori e comparse, di fronte a 100mila spettatori. Un esempio, quello sovietico, non solo di “teatro politico” ma anche, e oggi soprattutto, di uso oculato di un (futuro) spazio museale, talmente riuscito che il maestro Ejzenstejn ne fece un film.

Ha bisogno il teatro di una simile ambientazione-ricostruzione?

Sì e no, verrebbe da rispondere, pensando all’impresa di Perrotta. Che funziona bene laddove gioca in controtempo, invertendo le prospettive, innestando dubbi, spiattellando ironie e critiche sociali, ovvero quando “recita”.

Dopo lo “sbarco”, infatti, gli spettatori si trovano di fronte una svariata umanità: nei bei costumi “credibili”, il gruppo fatto di mille individualità diverse snocciola racconti, evocazioni, ricordi con accenti vari, che rivoltano i luoghi comuni. “Siamo qui – dice per esempio lo “scafista per vocazione” – a soddisfare tutti i vostri desideri, facciamo quel che volete, vi diamo quel che cercate”. Prostituzione, droga, insicurezza: eccoli là, pronti per noi. Ed è proprio quel narratore-scafista, un ottimo Ippolito Chiarello, a guidare le danze: e c’è spazio per tutti, anche con inserti coreografati (firmati da Maristella Martella), e con musiche e canti (di Claudio Prima e Emanuele Coluccia) a completare l’impianto corale dell’opera.

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Lo scarto avviene, però, quando il reale si fa ancora più reale. Alle spalle degli spettatori c’è una struttura abbandonata, affacciata su quel meraviglioso mare. Usata all’inizio come sfondo per proiezioni, poi diventa il fulcro della storia: si svela essere il Regina Pacis, il centro di permanenza temporanea dove agiva, criminalmente e impunemente (fino alla condanna) un prete diventato tristemente famoso, don Cesare Lodeserto. È una delle paginette vergognose della storia recente d’Italia, ma in fretta dimenticata, e torna prepotentemente all’attenzione grazie al lavoro di Perrotta, con il racconto di chi in quel centro è stato.

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Dunque quella “finzione ironica”, di cui si diceva, lascia il passo al teatro di inchiesta e testimonianza, con uno scarto che sta a mostrare da un lato l’insufficienza della “fiction” nell’affrontare certi temi, dall’altro il bisogno di farsi testimoni di quanto è stato.

Poi, c’è tempo per un caffè e un pasticciotto: offerto da attori che si travestono da personale dell’accoglienza (e noi spettatori nei rifugiati accolti che devono mettersi in coda tra due file di transenne).

Lo spettacolo del tramonto è altrettanto sospeso tra (finta) verità e (vera) finzione. È una via crucis, guidata ancora da Chiarello, accompagnato da un piccolo gruppo di musicisti. Si incontrano nella strada, che si dipana in una pineta sul mare, esempi di umanità: un catalogo ancora più raffinato e ironico di quello che è “l’immigrato” nell’immaginario italiano.

Foto di Luigi Burroni
Foto di Luigi Burroni

Siamo un popolo razzista, si sa: e qui Perrotta sbatte in faccia allo spettatore tutto il campionario di luoghi comuni e prevenzioni. Quindi, arrivati in prossimità della spiaggia, ci sono figure “sospese”: attaccate agli alberi in strani involucri-uova, raccontano la storia di chi non è più della terra lasciata e non è ancora (e forse non sarà mai) della terra che li ospita. Infine in spiaggia, mentre dal mare emergono strani “cadaveri” (sono sub), l’ultimo canto di nostalgia per la patria abbandonata.

Vi è, anche in questo percorso, un irrisolto oscillare tra rappresentazione e riproduzione: ma le sequenze finali, mentre un mappamondo gigante scivola lento sulle onde, sono di straziante e commovente effetto, cui contribuiscono i tanti interpreti. Memorabile.

Il tramonto, foto di Luigi Burroni
Il tramonto, foto di Luigi Burroni

Arrivati a sera, c’è ancora l’ultimo capitolo, Lireta, a chi viene dal mare, ambientato in un piccolo palco sistemato in acqua, in un fiordo meraviglioso, e affidato a Paola Rosciolo, accompagnata da chitarra (Laura Francaviglia) e violoncello (Samuele Riva). Qui è la storia vera, tratta dal libro autobiografico, di Lireta Katjaj, scoperta da Perrotta al Premio Pieve del 2012. Lo spettacolo è dunque una narrazione, un po’ troppo manierata nei tempi e nei modi, con musiche e canzoni che evocano Brecht o Viviani (Bammenella su tutti).

In questo caso, almeno per me, siamo al paradosso: una storia vera diventa poco “teatrale”. È buffo quanto e come il viaggio della protagonista, una sorta di romanzo di formazione che tra mille traversie ha un lieto fine, diventi pedante se trasposto in scena. Al pubblico, va detto, è piaciuto molto e ha tributato un caldo applauso all’interprete e all’autrice. Dunque lo scrupolo è tutto mio. E mi resta insomma il dubbio che il “vero” non sempre sia del teatro: la scenografia naturale come set che intima a una predisposizione d’animo, addirittura la compiacenza di scegliere orari a effetto, rischiano di attutire, di sviare, di inghiottire il teatro, facendo di uno spettacolo – serio, ben costruito, attento – una generosa scampagnata.

 

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