Teatro
Immigrant Song
La pioggia battente ha scoraggiato gli appassionati di teatro che frequentano il Teatro Potlach di Fara in Sabina ad affrontare la strada che dai borghi vicini conduce al bel borgo sabino arroccato su una collina, e al teatro proiettato sulla sommità della stessa, dentro le corti di un antico palazzo. Peccato. Hanno perso l’occasione di confrontarsi con una sorta di saggio sul senso del teatro oggi. E non spaventi il termine “saggio”, niente di didattico o di noiosamente accademico, ma un esempio di come uno spettacolo possa raccogliere in sé lo studio di una lunga, lunghissima tradizione (quella della commedia dell’arte) e insieme proiettarsi sulle angosce dell’oggi. Si tratta di Immigrant song (2.0) messo in scena dalla Compagnia Hellequin, di Pordenone, regia di Ferruccio Merisi, attrice Lucia Zaghet. Il filo rosso dello spettacolo è una fiaba di Saramago sulla fine del mondo (dell’Occidente).
Il titolo rimanda a una famosa canzone dei Led Zeppelin. Nella quale invero si parla dei vichinghi, non dei migranti africani. Ma tant’è. Il succo è lo stesso. Intorno alla fiaba, però, Merisi e Zaghet costruistono una complessa rete di racconti, simboli, gesti teatrali, rappresentazioni della memoria come manifesto dell’oggi. E Lucia Zaghet è magnifica nel prestare il proprio corpo, la propria voce, alla costruzione di questi simboli. Appare, all’inizio, come un Pulcinella ripiegato su sé stesso. Che ogni tanto fa smorfie di dolore che si convertono in una risata liberatoria di gioia quando da sotto il suo mantello bianco spunta, come in un parto – e il genere della maschera è abolito! -, un mandolino.
Lucia Zaghet ricostruisce la recitazione stilizzata, tutta mosse, e gesti, della commedia dell’arte. Anche la voce ha gesti. La risatina è quella tradizionale di Pulcinella. L’ascoltavo bambino al Pincio, dai burattini che lì vi si esibivano ogni domenica. Ma la mimica stilizzata, invece di attenuare, inacerbisce il senso della rappresentazione, perché ne fa non un caso singolo, realistico, di questo e di quell’individuo, di questo o di quell’evento, ma una storia universale, proprio nel senso in cui dice Aristotele che la tragedia (leggi: il teatro) è più universale della storia. Piano piano la favola del re che vuole il deserto intorno a sé e la storia del migrante che muore dentro un TIR si mescolano, si confondono. L’età mitica e l’oggi ci assalgono, ci violentano, con u racconto che non è più qualcosa di lontano da noi, ma qualcosa che ci riguarda, e molto da vicino. Il sasso che si sporca di sangue per il povero ammazzato e il sangue che diventa mare, sono uno specchio tutt’altro che assolutorio dell’oggi.
Pochi oggetti occupano la scena: un carrello della spesa, come se ne vedono nei supermercati (e diventa la pancia del TIR dentro cui muore il migrante, allusione forse al paradiso perduto del consumismo occidentale, irraggiungibile dagli esternamente esclusi), casette di presepe, pupazzi, e altri oggetti, che alla fine Pulcinella rimette alla rinfusa nel carrello, e se ne va via di scena, togliendosi e togliendoli alla vista dello spettatore – occidentale. Ma Pulcinella, levandosi la maschera aveva prima fatto intravedere una seconda maschera, non nera, bensì marrone, ch’è la maschera del migrante. E così le due maschere, quella dell’escluso, dell’emarginato Pulcinella, e quella del migrante – un Brighella, un Truffaldino? – finiscono con il sovrapporsi, con l’immedesimarsi. La trasformazione di Pulcinella in Migrante è furibonda, una danza scatenata, come s’immaginano le danze degli africani, il danzante sempre di spalle.
Ma l’operazione più interessante è quella di avere separato l’attore dalla figura che l’attore rappresenta. La maschera dell’arte diventa così un segno, un simbolo visivo del teatro stesso, in cui la verità della rappresentazione sta nell’altro che l’attore rappresenta. Diderot scrive, in una bella pagina sul senso della musica, che il canto gli pare sempre una stilizzazione del grido. Ecco: Diderot coglie l’essenza di qualsiasi arte, anche di quella che apparentemente si avvicina di più alla vita, che sembra imitarla più da vicino: il teatro. Perché la verità della rappresentazione non sta nella realtà alla quale la rappresentazione allude, bensì nella rappresentazione stessa, cioè nella stilizzazione del reale. Il canto non è il grido, ma la sua stilizzazione. La vicenda del migrante, o la fiaba del re che vuole desertificare il mondo (da Saramago), non sono l’oggetto della rappresentazione. L’oggetto della rappresentazione è Pucinella che, sulla scena, rappresenta la fiaba e la storia del migrante.
Bravissimi Ferruccio Merisi, il regista, e Lucia Zaghet, l’attrice, a farcelo capire. Il pubblico si lascia conquistare fin dall’inizio e alla fine esplode in entusiastiche ovazioni, prima di tutto alla bravissima Zaghet, ma anche a tutto l’emozionante e coinvolgente spettacolo. Quando si esce, commossi, e pensosi, la pioggia cade ancora, e battente, furibonda più di prima.
Teatro Potlach di Fara in Sabina
Autunno a Teatro
Festival 2019
Immigrant song (2.0) Compagnia Hellequin (L’Arlecchino errante)
23 novembre 2019
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