Teatro
Il western magico dei fratelli Forman
Siamo pronti per un’altra stagione teatrale? Davvero?
A me sembra meglio forse procrastinare, aggrapparci con le unghie e con i denti agli ultimi strascichi di un’estate faticosetta, approdare ai festival settembrini con quel languore fatto di venticelli freschi, ombre che si allungano e giornate che si accorciano. C’è addirittura una rete di festival, che si chiama proprio “Fineestate”, e ne collega una manciata in tutta Italia, con proposte sempre interessanti; poi c’è Roma, con “l’Estate Romana” che da qualche anno diventa sempre più autunnale, lasciando il vuoto siderale agostano per concentrare eventi e invenzioni da settembre in poi. Ma le stagioni – le stagioni ufficiali, quelle con le produzioni, gli abbonati, con le poche o tante repliche – fanno già capolino dietro l’angolo e, come per la scuola, prima o poi toccherà farsi coraggio, preparare lo zaino con i libri e andare a capire quel che succede nel teatro italiano.
Intanto però, ci sono questi frutti maturi di fine estate che come grappoli d’uva son pronti ad essere colti (e raccontati). Dunque, ad esempio, vi devo raccontare del Festival di Todi, diretto da Eugenio Guarducci, che accanto a un ampio cartellone “On”, ha proposto una vivacissima sezione “Off”, ideata e guidata da Roberto Biselli con Stefania Minciullo per la parte organizzativa: vi ho visto la versione definitiva di O della Nostalgia, di Riccardo Festa e Matteo Angius e voglio tornarci su con qualche ragionamento.
Ma è da Andria, in Puglia, che vi scrivo, al Festival Castel dei Mondi diretto da Riccardo Carbutti, dove mi sono catapultato per vedere i mitici Fratelli Forman, Piotr e Matej, figli del grande Milos, con Deadtown.
Impresa complessa e divertente, Deadtown è un omaggio al mito, all’immaginario, alla retorica del far west, mediata però da soluzioni tecniche che rimandano al cinema muto, alle comiche in bianco e nero, ai fumetti, addirittura ai soldatini di cow-boy e indiani di qualche generazione fa.
La compagnia praghese, da sempre nomade, ha allestito un vero e proprio edificio (teatro/casa) in legno, al centro di Andria: si accede e par di entrare in un vecchio saloon da film western. Ballerine, pistoleri, l’orchestrina che suona con violino e banjo, lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli. Ma l’ambientazione è una magia, è un sogno, il pretesto per un racconto d’illusione dal gusto antico. Un gioco meraviglioso del secolo scorso: mi veniva da pensare a Kafka al Cabaret Yiddish del caffè Savoy di Praga, oppure al Nature Theatre of Oklahoma, insomma a come – nella Praga di allora si poteva sognare l’avventurosa America. E i Forman – come è nel loro stile – giocano proprio su questa magia, sull’artigianato piccolo e semplice di un teatro antico, vivo, divertente, bambinesco. Il palcoscenico si anima a vista: sono gli stessi interpreti a spostare scalinate, porte, bancone bar e mentre in alto, su un camminatoio che compone il secondo piano c’è l’orchestrina, sotto la scena modulabile cambia in continuazione assetto. Allora tra vigorose danze di cowboy, can can accennati, canzoni di fanciulle del west disinvolte, c’è spazio anche per giochi di prestigio, virtuosismi su una bicicletta di un folle ciclista, uno spassoso numero con i pattini a rotelle e molto altro. Un’apertura entusiasmante per Deadtown, che lievita con molta ironia, spacciando super-serietà, con i colori del western e con la fantasia, mettendo alla berlina il pedante rigore del nouveau cirque o la retorica di certi musical. È forse la parte migliore dello spettacolo: ha il gusto nostalgico di un cabaret di frontiera, di sogni perduti, di magie tanto semplici da risultare commoventi.
Poi il piano narrativo si sposta, si amplia in un salto verso l’ipotetico “deserto del reale”: se quello era il sogno, ora, dopo un viaggio evocato da immagini proiettate, ci si imbatte nella realtà. I potentissimi e instancabili interpreti, una dozzina in scena oltre ai musicisti, con uno scarto narrativo entrano “in fabula”, ossia passano insomma dall’evocazione di quel mondo selvaggio a d una possibile ricostruzione. E la storia, però, un po’ si ingarbuglia: il prestigiatore praghese, arrivato nel west con una finta bambola meccanica – è in realtà una donna in carne ed ossa – entra nel saloon della polverosa Deadtown. Qui incontra un’umanità complessa: la proprietaria e la di lei figlia, un pistolero minaccioso, un vecchio folle, un cieco ispirato e mistico, uno sceriffo imbelle. Tra mille pistolettate, inseguimenti, duelli, amori, minacce, bevute di whiskey, canti e balli, la vicenda si dipana: usando ritmi accelerati da film muto, rallenty ad effetto, gag da slapstick comedy, evocazione musicali da spaghetti western, e suggestive proiezioni in tre schermi diversi, assisteremo all’epilogo di tutte le storie. Sotto una luna occhiuta che sarebbe piaciuta a Meliès, nella feroce Deadtown, ovviamente, le cose non possono finire bene: è la dura legge del West.
In questo mirabolante lavoro ci sono tanti momenti commoventi, felici, lirici, davvero struggenti di una poesia semplice, antica, immediata. E alla fine, dopo i meritatissimi applausi, il saloon apre anche per gli spettatori.
La regia di Petr Forman, anche autore assieme a Ivan Arsenjev, è forse un po’ sovraccarica, con qualche reiterazione di troppo che rischia di portare alla stanchezza lo spettatore, specie nella seconda parte.
Ma il lavoro resta come omaggio non tanto al Far West vero e proprio, quanto alla nostra – collettiva e individuale – proiezione immaginifica. È un gioco, giocato da bambini, tra Tex Willer e Buffalo Bill, tra Geronimo e i Magnifici Sette, Lucky Luke e il Settimo Cavalleggeri dove l’importante è continuare a sognare.
Dopo il festival Castel dei Mondi di Andria, i Forman porteranno lo spettacolo in Francia e saranno nuovamnte in Italia il 25 e 26 novembre al Funaro di Pistoia con la prima nazionale del loro nuovo lavoro, Aladino.
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