Teatro
Il teatro vola low cost, ecco il primo circuito del Collettivo Informale
La terza eroica fila dei nostri teatranti, emergenti, giovani e poco supportati, o quasi niente garantiti dalle istituzioni, viaggia low cost e si inventa un circuito fuori dalle righe. Una rassegna itinerante che tocca diverse città d’Italia dove é possibile arrivare e partire con biglietti a basso prezzo delle compagnie aeree. Si viaggia chip e leggeri. Con scenografie minimali o zero, si va in scena in palchi recuperati, talvolta in extremis, con la caparbia volontà di far conoscere i propri lavori. E questi sono spesso intensi e impegnati. Raccontano di un Belpaese dove non tutto va proprio bene, e forse ci sarebbe bisogno di guardare dentro per rileggerne la storia. Questi giovani teatranti lo fanno con humour, intelligenza e voglia di mettersi in gioco senza filtri. Accade nella rassegna “Sei, Seincontri Sei”, in realtà un primo circuito nazionale che per ora tocca Firenze, Parma, Livorno e Cagliari, ma presto dovrebbe coinvolgere anche Roma e Milano, attualmente in via di definizione. Una rete nata spontaneamente e battezzata il Collettivo Teatrale Informale. E’ composta da teatranti naturalmente, ma anche da tecnici, scrittori, organizzatori, filosofi e professori. A fondarla è stato un gruppo di realtà selezionato dal drammaturgo Francesco Niccolini assieme a Roberto Aldorasi, regista e coreografo per il festival “Montagne Racconta” svoltosi a luglio del 2017 a Trento.
Un incontro che ha acceso la voglia di girare per l’Italia, laddove è possibile, per penuria di mezzi, arrivare e partire con aerei che praticano vantaggiose tariffe low cost. Così si viaggia tra il TeatrExma di Cagliari, La Corte a Collecchio di Parma, Il Nuovo teatro delle Commedie di Livorno e il teatro Antella Bagno a Ripoli, Firenze. Compagnie coinvolte, il Teatro dallarmadio, Pilar Ternera, Antella e teatri Reagenti.Trattasi di teatro di narrazione, asciutto ed essenziale. Il che non vuole dire povero. Tutt’altro. Anzi, i sei allestimenti in programma sono piuttosto specchi di una realtà colta al volo con ironia e intelligenza, illuminati da una feroce e sarcastica voglia di fare i conti con una memoria spesso finita nel dimenticatoio, quasi fosse un fardello di panni sporchi che nessuno vuol lavare. E sì che di fare il punto sul nostro presente, magari sfogliando pagine di cronaca dimenticate troppo in fretta, esiste un grande bisogno.
È il caso del teatro dei Reagenti che nel brillante atto unico “Sorelle Prosciutti” mette in scena l’illuminante vicenda di un paese e una vallata del parmense, quella di Langhirano, quasi paradigmatica di tante vicende dello Stivale e in grado di richiamare altre vicissitudini e cantonate prese da un Paese che ha cancellato tradizioni del saper fare per correre dietro lontani modelli economici. Importati magari da realtà come l’ America ma con il risultato di trasformare le sapienze in un confuso ricordo. É così la storia del prosciuttificio Fassoni quello che due attrici, Francesca Grisenti ed Eva Martucci (autrici del testo in tandem con il regista Massimo Donati) sono brave nel raccontare, stando sul ritmo di uno spettacolo frizzante, ricco di gags e colpi a sorpresa tra balli, canti e battibecchi. Con la tecnica rubata al varietà Grisenti e Martucci allargano progressivamente il cono di luce dalla piccola azienda, messa su nel dopoguerra con molti sacrifici dal nonno, il partigiano Leonildo, fino a quello che negli anni diventerà il rinomato prosciuttificio Fassoni. Piccolo stabilimento industriale che nel 2008 seguirà come in una fotocopia il destino di molte piccole e medie aziende a conduzione familiare. Un destino quasi baro quello scaturito dalla progressiva trasformazione industriale: sempre più fagocitata dalla globalizzazione e dal bisogno di produrre di più, anche a costo di vendersi l’anima, la ditta degli esordi cadrà vittima delle spietate logiche di mercato.
Quello delle “Sorelle Prosciutti” è, sia chiaro, il racconto di parte di un’azienda che per cinquanta anni ha fatto “i prosciutti più buoni del mondo”: snocciolato da chi da piccola era abituata a giocare a nascondino tra le cosce dei maiali appese in stanzoni in attesa del benedetto vento marino, quello che arrivando dal mare attraverso il passo della Cisa giunge a Langhirano e si insinua dentro i magazzini dove stagiona la carne insaccata. Nasce da qui il carambolare tra le vicende di artigiani-imprenditori diventati negli anni padroncini e poi industriali, trascinati dentro logiche di un gioco più grande che può travolgere e annientare. Anche il vecchio prosciuttificio Fassoni. Certo, la malinconia scorre sulla schiena come un brivido freddo, ma è la speranza per un domani migliore, condita da una provvidenziale ironia, a volere per quei luoghi _ dove nonostante tutto, dicono le sorelle “si continua a fare un buon prosciutto” _ nuovi modi di produrre e ripensare al lavoro.
Ma “Sei” diverte e fa pensare anche con lo scoppiettante monologo dell’ottimo e preciso Stefano Santomauro che senza pietà nel folgorante e dinamico “Like”, regia di Daniela Marozzi, prende di mira la recente dipendenza di telefoni e reti social in un one man show tutto da ridere e gustare tra equivoci e doppi sensi. Santomauro, senza pietà, in modo implacabile bombarda nuovi luoghi comuni tra cellulari di ultima generazione, tecnologie sempre più debordanti che negli ultimi anni hanno occupato in modo preoccupante il nostro quotidiano, fino a cambiare alla radice i nostri rapporti interpersonali.
E’ invece legata al recupero di una memoria ingombrante come quella del fascismo e della cacciata degli ebrei in Italia, l’emozionante performance della livornese Alessia Cespuglio che in “Fango Rosso” racconta sino all’ultimo respiro l’alba di una tragica giornata del 1943 a Livorno. E’ la fotografia di una città in ginocchio tra rastrellamenti di nazi e fascisti, c’è fame ma anche paura per la vita alla mercè di un potere arrogante e criminale come quello delle squadracce che imperversano nelle strade. In questo quadro matura un omicidio perpetrato da un fascista davanti agli occhi di una folla impietrita e incapace di reagire. La pièce si dipana come un film lento, un amarcord che scava impietoso negli interstizi di una memoria sepolta. Una storia miserabile a cui è stato messo il silenziatore ma che il teatro fa riemergere in modo impietoso, riportando drammaticamente al centro del presente una infamia commessa oltre cinquanta anni fa. Una ferita rimasta aperta. Un crimine senza giustizia.
Nel monologo “Sottopelle” Giulia Vannozzi mette a nudo la complessa personalità di una donna al bivio che affronta se stessa ponendo davanti allo specchio problemi e confusioni. Storia “di una grande paura. Ma anche del coraggio di essere scorretta, sleale, sbagliata. Tutto sommato viva”.
Un’altra attrice, Adelaide Mancuso, in “Briciole”, regia di Anna Mecci, allestisce un noir ispirato liberamente alla fiaba calabrese di Italo Calvino, “Re Pipino”. Un conto dedicato ai bambini che in scena si trasforma in spettacolo per adulti, mettendo al centro la vicenda di una principessa che non vuole sposarsi con alcun pretendente ma intende costruirsi da sè l’uomo dei sogni. Con le proprie mani. Come se plasmasse il pane l’attrice lavora al suo racconto citando miti antichi come quello del Minotauro e inventando personaggi surreali con l’obiettivo di mettere in luce le contraddizioni quotidiane degli esseri umani.
E’ dipinta di colori scuri anche la cronaca di un fatto accaduto realmente, molti anni fa, e narrato nell’atto unico “Alfonsina Panciavuota” (regia di Antonello Murgia) da un efficace Fabio Marceddu nei panni di una donna che rotola il film di una amara esistenza. Vita da ultimi della terra, quella di Alfonsina, “una pancia in più da sfamare” mandata a servire all’età di dieci anni nella casa di lor signori. A quattordici diventa donna: ragazza madre con in grembo il frutto dello stupro subìto dal padrone di casa. Una vicenda di violenza e disperazione, di vita e morte e sensi di colpa, ma anche di amore nello sfondo delle rivolte dei minatori in Sardegna. Un dramma che suscita emozione e muove antica rabbia per una esistenza sulla quale sembrano pesare ataviche e fatalistiche maledizioni. Il monologo, qua e là ha qualche caduta di ritmo ma la triste sorte di “Alfonsina Panciavuota” , raccontata con tutte le sfumature del nero, è di quelle che lasciano l’amaro in bocca, e in tempi di recrudescenza delle violenze sulle donne, inquieta per quella linea d’ombra che segna anche la nostra contemporaneità.
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