Teatro
Il teatro, l’orrore, l’amore
Può suonare vacuo, vano, scrivere di teatro in questi giorni d’orrore.
Eppure, al contrario, mai come adesso abbiamo il dovere di farlo. L’arte ha sempre convissuto con la violenza – i concetti stessi di “arte”, di “patrimonio culturale”, sono frutto di coercizione, sopraffazione. E l’arte non ha mai cambiato, o quasi, il corso sanguinoso della storia. Eppure gli artisti, tutti gli artisti hanno il dovere, l’onere, il privilegio di rendere meno odiosa la vita di ciascuno di noi.
Usiamo il termine più amato – “teatro” – e lo decliniamo all’attualità cupa: il teatro di guerra. Vi ricorderete: il 26 ottobre 2002, alle 4,30, il gruppo Alpha fece irruzione nel teatro Dubrovka di Mosca. Morirono almeno 128 dei 922 ostaggi, più 41 sequestratori (19 erano le donne: l’immagine di quei volti velati sulle poltroncine rosse resterà a lungo). Un teatro russo – non il Teatro d’Arte di Stanislavskij – segnò quella volta una tappa non edificante della storia del Novecento: e in quel teatro si è celebrata la fine del Politico, la macabra messainscena del terrore di stato.
A Parigi, il teatro Bataclan era un caffè-chantant, con quel suo nome divertente che evocava un omaggio a Offenbach, all’operetta, alla belle epoque. Lo sappiamo, lo sapevamo.
Due teatri attaccati. Due teatri diventati scenari di morte.
Il teatro ha fatto i conti con la guerra: la prima tragedia che ci è stata tramandata è i Persiani. Eschilo però ribalta la prospettiva, si pone dal punto di vista degli sconfitti, dei barbari appunto. Dà voce ai sudditi del grande Dario e di Serse, le cui armate e le cui navi sono state debellate a Salamina. Eschilo fa parlare i nemici, gli Altri, e li svela vittime disperate, esseri umani che soffrono.
Ecco, la responsabilità del teatro. Mai come oggi, ciascun teatrante – in Francia, in Italia, in Siria, in Palestina, in Israele, in Iran, negli Usa, in Russia – ha il compito di tenere alto il livello di lucidità, di comprensione, di confronto.
Ha il compito di mostrarci la nostra esistenza non solo per quel che è, ma per quel che potrebbe essere. Lo diceva Bertolt Brecht, no? «Attraverso il cambiamento dell’uomo, concorrere al cambiamento della società». È evidentemente una battaglia persa, ma non per questo dobbiamo – mi ci metto anche io, come tutti i critici che fanno parte di questo mondo – ripiegare, arrenderci, voltare la testa dall’altra parte. I teatranti ci credono, anche i più cialtroni. Non è più tempo di catacombe, di estetismi o di narcisismi; si tratta, al contrario, di alzare la posta: chiederci e chiedere che mondo lascieremo ai nostri figli. Dunque rivendicare maggiore attenzione alla cultura, allo spettacolo dal vivo: perché qui si fondano ancora modalità possibili di stare assieme. Nelle diversità, nelle tensioni, nel riconoscimento di culture spesso lontanissime ma non per questo incompatibili, il teatro può dare la voce all’Altro, superando l’ennesima chiusura del “noi/voi”, a qualsiasi livello. La sfida è reinventare il pubblico, allargare sempre più il pubblico, continuare a occuparsi dei bambini, trovare nuovi interlocutori, comunicare e non mostrare, incontrare e non esibirsi: rimboccarci le maniche, insomma, con rinnovato entusiasmo e determinazione. È questa la battaglia del teatro.
E si tratta, soprattutto, di chiedere ai nostri politici un cambiamento di rotta. Investire sulla cultura, sullo spettacolo e farlo seriamente.
L’1% del PIL alla Cultura, come avviene in Germania; oppure – come dicono altri – il canone Rai devoluto allo spettacolo dal vivo.
Si tratta del nostro futuro: come fece Renato Nicolini con l’Estate romana, con la bellezza, la festa, l’arte, il teatro si possono sconfiggere le (rinnovate) paure, la diffidenze. Allora si trattava della lotta armata, oggi di un conflitto su base mondiale, economica, sociale e religiosa.
Non possiamo rinunciare alla vita, alla bellezza, all’arte: in Oriente come in Occidente. Chiediamolo apertamente a questa classe politica.
Nel rito laico, laicissimo, che è il teatro, possiamo ancora trovare tracce di un futuro possibile.
Dunque, cari amici teatranti, assumetevi ancora più di prima le vostre responsabilità: ogni spettacolo, ogni testo, ogni gesto, è un segno in questo mondo. Il pensiero critico passa da voi. Il che non vuol dire, ovviamente, far banale pedagogia, fare indottrinamento, fare teatro “civile” a tutti i costi. Semplicemente ri-creare comunità. Anche solo parlando d’amore.
Come avviene, ad esempio, in quello strano, evanescente, spettacolo che è Schwaanengesang D744 (Canto del cigno) che Romeo Castellucci ha tratto dai lieder di Franz Schubert. È uno spettacolo rarefatto, impalpabile. Lì per lì non mi aveva convinto, ma ci sto ancora pensando, dal giorno del debutto romano (lo scorso 7 novembre) nell’ambito del Romaeuropa Festival. Una scena buia, vuota, il pianoforte sulla destra. La soprano Kerstin Avemo, accompagnata da Alain Franco, interpretano una selezione di lieder. Temi romantici, di amore e solitudine. Languidi, dolenti. L’interpretazione è teatrale, operistica, particolarmente sentita e seducente. Poi, la donna si ritrae nell’ombra: ed evoca il “canto del cigno” – è il titolo di un lied – in un sussurro. A lei subentra una attrice, Velérie Dréville, che dapprima assume pose plastiche dell’immaginario attorale, poi esplode in una rivolta contro il suo ruolo, contro l’essere guardata dal pubblico muto, si lascia andare a insulti imbarazzanti. In un crescendo rumoristico e sonoro (l’intervento di Scott Gibbons) e nell’esplosione luminosa di neon, si consuma l’epilogo di questo piccolo concerto-spettacolo.
Al di là dell’evanescente “trama”, che certo non preme, quel che resta è una sensazione, una suggestione. Castellucci firma un lavoro sicuramente “minore” nel panorama della sua fulgida creazione, ma non per questo meno interessante. Proprio nel minimalismo, trova una intimità, una sottile poeticità che è fatta di tenerezza, di intenzioni, di una oscurità quasi ancestrale. In quel buio totale, in quel nero che tutto avvolge, tagliato da fasci di luce, le figure femminili sono fortissime e fragilissime, comunque folgoranti, nodali.
E dunque anche il lontano Schubert, questo spettacolo rarefatto, crepuscolare, con un pathos a tratti addirittura manierato, diventa, in tempo di guerra – se di guerra si tratta quella che stiamo vivendo – un tornare all’amore, alla centralità della donna. Ed è un gesto, un’indicazione, una possibilità.
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