Teatro
Il Teatro è Stato? Scisma, politica e interventismo d’autunno
Torno a Roma, dopo appena dodici giorni, e la trovo senza Sindaco e senza Giunta, ma con una squadra di sceriffi-commissari, tipo magnifici sette, pronti a scendere in campo.
Torno a Roma e trovo una serie di proposte teatrali interessanti, a partire dalle tante piccole cose dislocate in vari teatri e teatrini della città per arrivare alla 24ore di Jan Fabre per il Romaeuropa Festival, quel Mount Olympus affollatissimo fino a notte fonda (una scena nella foto di copertina di Piero Tauro). Lo spettacolo è iniziato alle 19; alle 2 di notte, quando sono uscito era ancora pieno di pubblico plaudente pronto a dormire dentro il teatro Argentina (io non ci dormo, torno in mattinata, ma di questo parleremo più avanti).
Ecco allora la questione aperta, la dicotomia dell’assurdo: la Roma politicona e arraffona è allo sbando; l’altra, quella del teatro, impoverita e tagliata da tutte le parti, nonostante tutto continua. C’è da gioirne? No, e spiego perché.
Dobbiamo rimboccarci le maniche: si preannuncia un autunno molto caldo. Perché se pure i teatranti vanno ancora in scena, non lo fanno con leggerezza o entusiasmo.
Di fatto, il settore è stato messo (ulteriormente) in grave crisi da una riforma, voluta dal Mibact del ministro Dario Franceschini, partita con le migliori intenzioni e naufragata in mille contraddizioni. Dunque, se pure lo show goes on, i protagonisti di questo “ex-rutilante” mondo sono stanchi, e pure un po’ incazzati. Ecco, allora, che nell’arco di una settimana sono previsti due incontri-manifestazioni: la prima domani, lunedì, al teatro Vascello, a partire dalle 10,30 con il titolo significativo di 2025, guardando oltre, organizzato da Natalia Di Iorio per Le vie dei Festival. La seconda, al Teatro Quirino, lunedì prossimo dalle 11 (si badi: il lunedì è giorno di riposo per i teatri, dunque si scelgono questi giorni per consentire la maggior partecipazione possibile).
Qual è il clima? Sembra di fermento e sconforto, rabbia e desolazione. Sospeso tra generosi tentativi di rilancio e (auspicabili) prese di posizioni, tra ricorsi al Tar – rispetto alle decisioni prese in sede ministeriale – e commenti feroci, tra entusiasmo preventivo e faticosa sopravvivenza. Quel che è più grave è che comincia a serpeggiare una vera disperazione tra gli addetti ai lavori, soprattutto giovani, ormai vessati ovunque e disincantati a tutto. Allora, come mangiando e bevendo a un funerale, si fa finta che si possa andare avanti ancora un po’: nuove stagioni, debutti, festival. Eventi strombazzati e progetti raffinati sembrano voler essere il velo pietoso che copre il “cadavere insepolto” di cui parlava Nicola Chiaromonte. Dobbiamo parlar franco: così non si va avanti.
Questo clima da Titanic ha spinto un regista di calibro di Massimiliano Civica, affiancato dal critico Attilio Scarpellini, a diffondere un vero “manifesto” durante un incontro al Festival Contemporanea di Prato appena concluso (si trova qui). La pratica del Manifesto, passata purtroppo di moda, ha segnato tante avanguardie artistiche: erano documenti di dichiarazione poetica, sociale, di movimentismo politico e culturale.
Provo a riassumere, grossolanamente (mi perdonino gli autori), l’articolato scritto presentato a Prato. L’assunto da cui muovono Civica e Scarpellini è fortissimo: «Oggi a teatro “facciamo finta” che le nostre azioni abbiano uno scopo ed una possibilità di presa sulla realtà, ma il nostro agire è palesemente senza senso, e i nostri comportamenti sono compulsivi e stereotipati… Oggi ognuno si barrica nella propria fortezza vuota, sperando che passi la tempesta che c’è fuori». Il ragionamento del Manifesto prosegue in modo estremamente calzante e strutturato nel valutare la situazione attuale con particolare attenzione proprio alla riforma in atto: «da parte del Ministero, un’indicazione chiara: il teatro deve diventare un’azienda in espansione, che assume nuovo personale, offre “prodotti” di largo consumo e aumenta le giornate lavorative». E dopo un’ulteriore disamina delle palesi contraddizioni del sistema, si arriva a una prima conclusione: «Nella realtà abbiamo due possibilità: non accettare che il teatro perda la sua funzione e, con o senza finanziamento ministeriale, lottare per un teatro che abbia l’ambizione di svolgere un servizio pubblico; arrendersi al fatto che il teatro non è considerato un servizio pubblico, e trarne, ognuno per sé, le conseguenze al grido di “si salvi chi può!”. In ognuno dei due casi avremmo almeno la consolazione di agire con piena coscienza».
Sin qui, il lavoro teorico di Civica e Scarpellini è assolutamente condivisibile. La presa di posizione, poi, si fa sempre più aspra: contro il “teatro commerciale nazionale” imposto dallo Stato, contro i nuovi direttori di Teatri Nazionali e Tric, contro chi vuole uccidere il teatro, ridotto ormai a “fortezza vuota”. A fronte di tutto questo, gli Autori propongono una «nuova alleanza tra gli artisti, gli spettatori e la critica, basata sull’indipendenza e la non interscambiabilità delle loro funzioni all’interno di una stessa comunità di passioni. Per essere proficua questa alleanza va estesa a tutti quegli operatori disposti a inventare delle nuove strategie di sostegno economico al servizio di una scena fondata sul primato dell’arte e degli artisti – e di conseguenza, disposti a maturare anch’essi un “realistico” distacco critico dal sistema del teatro pubblico commerciale».
Per quel che mi riguarda, però, a un certo punto, sulle conclusioni mi perdo. Non mi sono mai riconosciuto con gli Apocalittici, e men che meno con gli Integrati. Di questi ultimi invidio la capacità di adattarsi e di dir sostanzialmente di sì a tutto (o fregarsene); dei primi mi affatica il catastrofismo: il romanzo è morto, il cinema è morto, il teatro è morto…
Invece a me pare che il teatro sia ancora vivo, scandalosamente vivo. Nonostante i ripetuti tentativi (politici e non solo) di liquidarlo. Per questo mi pare, nel suo algido splendore, che pretendere uno “scisma”, come chiedono Civica e Scarpellini, sia un gesto francamente eccessivo.
Scisma da che e da chi? Loro dicono, più o meno, dal teatro “commerciale”. Però è così difficile dire “il mio teatro è più teatro del tuo”. O meglio, per un artista è facile e doveroso: ognuno ha, deve avere, la propria visione del mondo e dell’arte. Ma gli altri? Quelli che fanno cassetta: che ne facciamo? Dovremmo tutti disinteressarcene, sembrano dire gli autori del Manifesto. Ma se al pubblico piace Mr X invece che Mr Z, che si fa? Shakespeare, a suo tempo, era commercialissimo: vendeva biglietti a tutti e campava di quelli. Lo stesso Molière – anche se la Corte aiutava e non poco. Avevano, entrambi, dei mentori, degli sponsor, ma non disdegnavano il pubblico. Tutto il teatro tedesco è pubblico e ha pubblico, in Germania i teatri Nazionali funzionano benissimo: possiamo definirli commerciali?
E poi lo scisma: come lo facciamo? I catacombali o gli aventiniani a me fanno un po’ timore: si sentivano entrambi troppo nel giusto, troppo possessori di verità infallibili. Meglio qualche dubbio, ogni tanto. Anche perché condannare tutti i direttori di teatri italiani di Nazionali e Tric (ma non è certo questo l’intento del Manifesto) al ruolo di boss ottusi mi pare un po’ forzato. C’è, anche in quella categoria, chi ci crede e fa bene il proprio mestiere. Penso che i teatri, tutti i teatri, siano ancora dei luoghi di valore: dal Piccolo di Milano alla cantina di periferia, sono spazi da proteggere con le unghie e coi denti. Dobbiamo tenerli cari, questi vecchi catafalchi, questi sepolcroni imbiancatoni di una Italia che fu. Hanno resistito tre o quattrocento anni: stanno là a ricordarci ancora chi siamo, a farci vivere quel poco di laica e post-religiosa ritualità comune che ci resta. Dobbiamo semmai essere pronti a combattere contro lo Stato per far sì che restino un patrimonio dello Stato.
Ma. C’è il solito Ma. Torna il dubbio di fondo, che Civica e Scarpellini – nel loro sincero, vero, amore per il teatro che rende commovente, per passione e slancio, questo loro Manifesto – la domanda che hanno sollevato: il sistema è marcio? Loro dicono di sì, e per questo dobbiamo abbandonarlo. Io, che ormai sono vecchietto, mi ostino a dire cambiamolo. Indigniamoci e cambiamolo. Proviamo a resistere ancora un po’, o addirittura a passare al contrattacco.
Intanto, ad esempio, c’è anche una buona notizia: il ruolo complicato di Direttore Generale al Ministero è andato a Ninni Cutaia, uomo di grandissima esperienza e sensibilità, che subentra all’artefice di questa discussa riforma, Salvo Nastasi, passato alla Presidenza del Consiglio. E se, putacaso, ponesse mano alla situazione, migliorandola? Già nella danza ci sono stati segnali positivi: potrebbero benissimo toccare anche la prosa, no?
Insomma, forse non è più il tempo di prendere all’assalto il Palazzo d’Inverno (anche se…), ma certo sottrarsi in nome della “grazia” e della “purezza poetica” in questa fase di macerie è un peccato. Soprattutto se lo fanno teste lucide e pensanti come quelle di Civica e Scarpellini.
Semmai sarebbe da chiedere ben altro, tutti assieme – assemblea dopo assemblea, spettacolo dopo spettacolo, recensione dopo recensione. Provo a dire: il raddoppio del FUS, il Fondo Unico dello Spettacolo. Sarebbe una lotta politica, sociale e culturale, di tutta la categoria per portare l’Italia all’altezza (ma non al pari) di altri stati europei che stanziano l’1% del Pil alla cultura – mentre l’Italia, come si sa, viaggia allo 0,02%. Altri obiettivi potrebbero essere all’orizzonte: la previdenza, ad esempio, avviando una discussione sulla “scomparsa” dolosa dell’Enpals. Oppure la maternità garantita, o ancora una riflessione seria sull’Imaie e su come gestisce il proprio capitale; la paga-prove e tutto il contratto nazionale; il ruolo del Sindacato Attori…
La realtà non è certo luminosa, e Civica/Scarpellini ce la mostrano senza sconti, ma non è detto che non cambi. La guerra tra poveri potrebbe diventare meno aspra. Sono utopie, forse: ma il teatro è fatto di utopie..
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