Teatro

Il teatro e la danza, a tempo di Juke Box

19 Febbraio 2020

Modalità juke box. Per una fortuita coincidenza “Autunno danza” ha inaugurato il festival, svoltosi nell’arco di tre mesi fino a dicembre al Teatro Massimo di Cagliari, con una insolita e stuzzicante prassi spettacolare. Sono stati cioè gli spettatori a determinare, almeno in parte, il destino di una performance, sviluppo e culmine, agendo di fatto sul climax stesso dell’azione. Un dispositivo teatrale simile allo scambio che per una casuale opportunità ha visto sotto lo stesso tetto, a pochi giorni di distanza, due performer di razza come Monica Demuru _ ospite nella programmazione di Sardegna teatro _ e il danzatore e coreografo francese Olivier Dubois, a cui invece spettava proprio il compito di aprire il venticinquesimo festival di danza, tra le più vivaci vetrine italiane del contemporaneo sulle punte, allestita come sempre in modo attento da Spaziodanza. Il meccanismo scelto dai due artisti è semplice e assai simile nella sostanza  e la scelta dei “numeri”, che serviranno per confezionare uno spettacolo unico e diverso, sera dopo sera, viene deciso proprio dal pubblico. E “Juke box” si intitola la tappa cagliaritana di un percorso, frutto della collaborazione tra l’attrice di origine sarda e i ricercatori transalpini de l’Encyclopedie de la parole (ha debuttato a Roma e Prato con la coproduzione di Short theatre, Metastasio e Sardegna teatro) che hanno raccolto e catalogato in documenti sonori, testimonianze di come una comunità rappresenta sé stessa. Demuru, dotata di una voce straordinaria _ che l’ha resa protagonista in diversi crossover tra scena e musica (jazz soprattutto) _ e un team di antropologi hanno così concepito un vitale e spumeggiante live act, durante il quale si ride e ci si commuove, riflettendo allo stesso tempo, sulle radici comuni di uomini e donne immersi in una ordinaria quotidianeità.

Una veduta sul porto di Cagliari fotografata dall’antico quartiere di Castello per lo spettacolo “Juke Box” con Monica Demuru

Frasi e frizzi sono stati colti al volo in un mercato o alla fermata di un bus, sulla strada o nei luoghi di lavoro, nelle radio o nelle trasmissioni tivù. Un materiale che, repertoriato dagli studiosi e riletto dagli artisti _ la direzione artistica è di Elise Simonet, la regia di Joris Lacoste _è  stato trasformano in quadri teatrali, pezzi di una partitura composta in tempo reale, hic et nunc. Fotografie in movimento di una umanità che si rivela direttamente, senza filtri.  Demuru attende che il pubblico selezioni un titolo, come in un vecchio juke box appunto, da una lista distribuita a ciascun spettatore prima dell’inizio dello show. Sono intriganti ministorie, varie ed imprevedibili. “Caccapupù” è la lettura di un libro per l’infanzia ascoltato nella biblioteca di una scuola mentre in “Azione!” ci sono le ndicazioni di regia sul set di un film porno. Sanguigne e dirette ma anche al limite del surreale. Vedi “Non tutte le parole che iniziano con “Gene”, racconto di un sogno o la chiamata a una veggente durante una diretta tivù in Toscana a “Non piangete più”. L’attrice cambia espressioni assumendo volta per volta in modo repentino nuove pose e indossando maschere di differente teatralità, esibendo grande classe nel cambiare registro e dare voce a un così ampio catalogo popolare. “Si rizzano” mette in campo una conversazione tra  una parrucchiera e una cliente mentre le ipocrisie della comunicazione pubblicitaria vengono messe a nudo in “La sua telefonata è importante per noi”. Gustose e contagiose come un fescennio, “Basca de si morri” catturata in un messaggio Whatsapp e “Sa spugnetta” un video tutorial pubblicato su YouTube.

Monica Demuru in “Juke Box”,direzione di Elise Simonet e regia di Joris Lacoste, in scena per la stagione di Sardegna Teatro

Non esce indenne neanche il tiggì regionale sardo in “Travolto e ucciso dal trattore” ed è tutto un programma la conversazione telefonica con l’agenzia delle Entrate di “Una donna molto molto bugiarda”... “Juke box” diverte e conquista per il ritmo prettamente musicale che a tratti sembra suggerire una forma di rap, scandito con geniale interpretazione da Monica Demuru capace di dimostrare che il racconto del contemporaneo in senso antropologico possa essere collegato teatralmente alla vita stessa di tutti i giorni. Più nell’alveo autobiografico, costruito per mettere a nudo anche gli ultimi recessi di una importante carriera di danzatore, è “My body of coming forth by day” del transalpino Oliver Dubois. Una memoria incisa ed esposta con le cicatrici sul proprio corpo d’artista che, con il passare del tempo e delle esperienze, è diventato esso stesso archivio vivente di opere d’arte. Il racconto è all’insegna di una giocosa e accattivante ironia/autoironia in cui l’artista chiama gli spettatori ad aiutare colui che, dopo aver danzato con i più grandi coreografi (nove anni fa venne considerato uno dei migliori danzatori al mondo) non ha esitato a mettersi a nudo, e non solo letteralmente, dipanando il filo dei propri ricordi in un improvvisato cabaret. In una scena spoglia da effetti speciali e costumi Dubois, in mano calice di spumante e sigaretta, vestito con un elegante abito nero, riceve e invita il pubblico a prendere posto, in parte anche sulla scena disponendosi ad anfiteatro. Da delle buste gli spettatori chiamati a scegliere estraggono titoli di coreografie abbinati alle musiche originali (si possono confermare ma anche cambiare) che accompagneranno la performance. Tra i prescelti anche uno incaricato di spogliare il danzatore ogni volta di un pezzo di abbigliamento mentre con un fischietto un altro rilancerà proponendo domande, anche personali.

                          Oliver Dubois in “My Body of Coming Forth by Day” che ha inaugurato il festival Spaziodanza (foto Laura Farneti)

Lo spazio diventa così una dancing hall sui generis. Una sorta di zona franca in cui il danzatore rivela se stesso esplorando il suo incredibile e vasto repertorio di danzatore che ha lavorato con Prelocaj e Karina Saporta, che conosce e ha fatto sua la lezione di grandi coreografi e personaggi della scena. Da Nureyev a Fabre e Forsythe. Dubois, diventato egli stesso stimato coreografo, torna sui propri passi reinventando sera per sera la biografia personale, alternando danze e memorie, pubblico e privato, inanellandoli in un percorso d’arte e vita che lascia incantati. Dal libro dei ricordi spuntano fuori soli o “resumé” di coreografie concepite da Prelocaj e altri, che vanno in abbinamento con le musiche indicate dal pubblico. La drammaturgia dello spettacolo viaggia in parallelo con le citazioni dell’egiziano “Libro dei morti” _ che preannuncia la rinascita dei corpi _ e frammenti di vita dello stesso artista. Sin dal giorno in cui, in età già avanzata, controcorrente, decise di darsi completamente alla danza. Dubois compie evoluzioni sulle musiche originali delle coreografie o quelle indicate dagli spettatori mentre progressivamente, pezzo dopo pezzo, resterà in mutande . La performance diventa così esibizione di un corpo che ha vissuto da comprimario la scena contemporanea . E, anche ora con qualche chilo in sovrappeso, continua a conquistare e sedurre gli sguardi di chi, raccogliendo quel filo narrativo finisce dentro un vortice d’arte. Sono le coreografie di Prelocaj come la bellissima “Dance de Chevaliers”musicata sontuosamente da Prokofiev) o la rivisitazione di “Raymonda” del divino Nureyev, “L’après midi d’un faune” di Nijinskij e tante altre ancora. E’ una girandola che conquista con una colonna sonora che tutto ingloba, da “That’s Life” di Frank Sinatra a “Love to love you” di Donna Summer remixato da Laurent Garnier. Folle e trascinante lo spettacolo procede con numeri inattesi. Ogni frammento è un atto d’amore che alla fine si trasforma in atto corale con il pubblico chiamato a ballare assieme al danzatore avvolto da una ampia pelliccia e il corpo rivestito di paillettes… La scena è diventata così un democratico dancefloor da misurare a passi di dance levando le braccia al cielo al ritmo di “Don’t Stop” brano culto di Sylvester dei primi anni Ottanta.

                         Oliver Dubois nel finale del suo spettacolo al festival di  Spaziodanza a Cagliari (foto Laura Farneti)

Come è consuetudine della rassegna, notevole è stato lo spazio dedicato alle produzioni di qualità tricolore. Iniziando da “Bermudas” gioiello di danza-danza ispirato alle teorie del caos firmato da Michele Di Stefano la cui chiave è quella della ripetizione di gesti semplici da eseguire rigorosamente in loop con i performers che si danno il cambio in velocità. A segnare metronomicamente le belle scene d’insieme e le evoluzioni geometriche di una danza fatta di ritmo ed energia sono le musiche elettro di Underworld (“Second Hand”), Kaytlin Aurelia Smith (la bellissima “Existence in the Unfurling”), Davey Asprey (“Illusions”), quella minimalista di Juan Atkins e Moriz Von Oswald (“Transports”) che evoca le acidità ancora di un Laurent Garnier. In scena i danzatori, tutti molto bravi: Philippe Barbut, Andrea Dionisi, Annalisa Rainoldi, Loredana Tarnovschi, Francesca Ugolini, Giovanni Leone, Alice Cheope Turati. Un giovane coreografo, Marco D’Agostin, più di una promessa ormai, premiato nel 2018 dall’Ubu come miglior performer sotto i 35 anni, è l’autore del collaudato “Avalanche” scavo sulle diverse memorie. In pista lo stesso D’Agostin assieme a Teresa Silva, come dei possibili sopravvissuti in un nuovo mondo, sono proiettati in uno spazio tempo indefinito alla ricerca di tracce lasciate da un tempo ormai lontano. Tracce per riapprendere a vivere in un pianeta che ha attraversato la catastrofe.

                        Un momento di “Bermudas” coreografia di Michele Di Stefano al Massimo di Cagliari (foto di Laura Farneti)

Musica e danza, suoni e gestualità, movimento in progressione e musica in presa diretta sono al centro del lavoro del coreografo Daniele Ninarello, presente ad “Autunno danza” con due coreografie. La prima, “Kudoku” vede in scena in solo lo stesso Ninarello in rapporto empatico con il sassofonista Dan Kinzelman (anche percussione ed elettronica) mentre esplorano lo spazio in un continuum fatto di improvvisazione e danza in libertà. In trio con Maria Cioppina e Lorenzo Covello in “Still” alla ricerca di possibili traiettorie di fuga i danzatori mettono in gioco se stessi fino in fondo in un continuo scambio di flussi di energia. Un altro trio, tutto al femminile, guidato dalla coreografa Irene Russolillo (con Alice Giuliani e Alice Raffaelli) in “This is your skin” concentra l’azione sul rapporto tra passi danzati e uso della parola. Movimenti di automi ripetuti continuamente sembrano indicare l’impossibilità di uscire dal corpo. I movimenti coreografici delle tre danzatrici si sviluppano sulla colonna sonora a base di musica elettronica composta ad hoc da Spartaco Cortesi.

                        “This is your Skin” di Irene Russolillo in scena con Alice Giuliani e Alice Raffaelli (Foto Laura Farneti)

In un mondo che sta vivendo come in un piano inclinato la folle discesa verso la catastrofe ambientale la risposta per reagire e contrastare questo dramma, apparentemente ineluttabile, sta, ancora una volta, nella natura. E’ad un sistema che possiede dentro di sé fiere doti e capacità di resistenza e ri-partenza come quella del mondo vegetale che l’uomo deve guardare. Lì potrebbe trovare la fonte di ispirazione per reagire alla progressiva apatia che rischia di portarci verso l’autodistruzione. Questo è il percorso necessario, e quasi obbligato, per ritrovare la gioia di vivere, la “Joe de vivre” come si intitola appunto l’intrigante e affascinante coreografia presentata da Simona Bertozzi al festival cagliaritano. Accompagnata dalle trame sonore e la regia sonora di Francesco Giomi e l’architettura di luci di Simone Fini, che pennellano con suggestive soluzioni cromatiche uno spazio nudo, sulla scena si sviluppa una danza a quattro (i bravi danzatori che hanno dato vita alla coreografia sono Wolf Govaerts, Manolo Perazzi, Sara Sguotti e Olhana Vesga) che a tratti richiama le suggestioni quasi rituali della danza giapponese butoh. Da un groviglio di corpi prendono forma allungamenti, innervature e ricerca spasmodica di un’altra spazialità, la ricerca di altra gestualità che anela la luce e una dimensione inedita di vita.

La coreografia “Joie de vivre” di Simona Bertozzi riflette sui problemi provocati dall’allarme ambientale (Foto Luca Del Pia)

 

Ed è con un altro tuffo in una dimensione magica e favolistica quella di “Gentle Unicorn” di Chiara Bersani che “Autunno danza” ha regalato attimi di rara intensità e poesia. Un viaggio lento e graduale in un territorio sospeso nel tempo e nello spazio dove una creatura che vive dentro i sogni si rivela per attimi di magnetica intensità. Fruga negli occhi e osserva chi osserva, solleva le braccia e lo sguardo verso il cielo fino a suggellare il suo atto finale con un suono che entra nel cuore. “The Generosity of Dorcas” è il solo concepito da Jan Fabre per il danzatore sardo Matteo Sedda che ha fatto parte dell’ultima straordinaria performance di 24 ore concepita dall’artista belga “Mount Olympus/Pour glorifier le culte de la tragédie”. In questa performance ospitata a Cagliari, Fabre, rendendo omaggio a quelli che _ come il giovane Sedda _ definisce “Guerrieri di bellezza”, sembra comporre parti di un puzzle più grande relativo alla ragione e al senso del lavoro dell’artista in senso lato. Dorcas è l’unica discepola donna di Gesù che aiutava i bisognosi cucendo degli abiti. Un’immagine di grazia e generosità che in scena è resa visivamente da Sedda dentro la cornice di una moltitudine di fili colorati: qui prende corpo la ripetizione mimica dell’atto di cucire mille aghi, quasi fossero quelli indispensabili a intrecciare i fili invisibili dell’arte e della solidarietà. Sedda si muove con fluida eleganza e virtuosismo, un maestro di cerimonia di un rito androgino e borderline dentro un groviglio luminoso di linee colorate.

                             Il danzatore Matteo Sedda nella performance “The Generosity of Dorcas” di Jan Fabre (Foto Laura Farneti)

“Fuorimargine” è il nuovo progetto varato da “Autunno danza” e coprodotto da Spaziodanza e Tric Sardegna Teatro in collaborazione con il Conservatorio “Palestrina”, Spaziomusica e Ticonzero con cui si intende dare sostegno alla creatività giovanile. Il progetto ha richiamato giovani danzatori e coreografi di mezzo mondo per una esperienza di lavoro in residenza con un gruppo di musicisti negli spazi di archeologia industriale de Sa Manifattura. Sotto la guida di un tutor come la coreografa Francesca Foscarini i giovani (Zoe Bernabeu, dalla Francia, Nicole Caruana (Usa), Audrianna Martin Del Campo (Canada), Umbertop Gesi (Italia9, Tommaso Giacopini (Svizzera), Alice Giuliani (Italia), Melina Sofocleus (Cipro) e Han Yeonji dal Sud Corea) hanno lavorato sulla multidisciplinarietà e sulle fonti stesse del lavoro creativo. In conclusione hanno mostrato in piccoli saggi il lavoro svolto con interessanti momenti performativi.

Una delle perfomance di “Fuorimargine” presentate al festival di Spaziodanza a Cagliari (Foto Navajo)
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