Teatro
Il teatro deve bisbigliare le verità
“Il teatro deve essere rauco”, scriveva quel grande critico che era Roberto De Monticelli.
Vorrei prendere spunto da quella aguzza considerazione per rilanciare: “il teatro deve bisbigliare le verità”. E mi spiego.
L’altra sera, prima dell’esplosione europea dell’Italia calcistica, in laguna sono sbarcati gli irriverenti geniacci di Agrupación Señor Serrano, la compagnia catalana già Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2015. Il gruppo ha presentato il bellissimo The Mountain, una nuova creazione – già apparsa qua e là in forma di work in progress – che ha trovato il suo compimento, la sua effettiva maturazione, proprio di fronte al pubblico veneziano. Non sto, qui, ad analizzare lo spettacolo: mi auguro potrà girare tanto sulle scene nazionali. Ma mi piace prendere spunto dal tema pressante affrontato da Alex Serrano e Pau Palacios, la “post-verità”, per fare dunque qualche considerazione. Agrupación Señor Serrano montano una riflessione arguta che chiama in causa la scalata dell’Himalaya del 1924 ad opera di George Mallory, la Guerra dei mondi di Orson Welles, e la manipolazione dell’informazione ad opera della politica, segnatamente dando spazio come personaggio ad un simil Vladimir Putin estremamente inquietante.
In scena con la bravissima Anna Pérez Moya e David Muñiz, Palacios e Serrano sono maestri di una cerimonia paradossale: usano l’immagine per demistificarla, denunciano le immagini creandole, proprio come Welles stigmatizzava la fidelizzazione degli ascoltatori radiofonici facendo radio. In questo gioco di incantamento e svelamento, il gruppo porta l’accento sulla condizione di “caos, sospetto e disinformazione” in cui ormai navighiamo. “È la stampa, bellezza” si diceva decenni fa: ma oggi la stampa ha assunto i tratti ambigui dei social, delle bolle di consenso, della comunicazione veloce, immediata, priva di riflessione e verifica. Il mondo, in sostanza, del pregiudizio di conferma: cerchiamo solo quello che già sappiamo; un mondo di consensi.
Una vecchia regola del giornalismo americano recita: “Se tua mamma ti dice che ti vuol bene, controlla la fonte”. Ecco, noi non controlliamo più la fonte, non verifichiamo la veridicità delle notizie: crediamo alle immagini, così come credevamo ai titoli scritti grandi o alle voci suadenti o gridate della radio. Il mondo della post-verità si fonda, per dirne una, su 3 milioni di contenuti che appaiono su Facebook ogni 60 secondi: come è ormai chiaro a tutti, i social hanno questi ritmi, non c’è tempo per verificare alcunché, anzi i BigData incoraggiano a non farlo, invitano a una superficialità emotiva sempre più manierata. E si sa: siamo fasce di mercato, siamo bolle, siamo dati a disposizione, siamo seguiti, monitorati, valutati. Rinunciamo serenamente alla nostra libertà, pur di stare nel gioco della comunicazione virtuale.
Troppo tardi per tornare indietro, ormai. Si tratta semmai di scoprire delle sacche di resistenza.
Ecco allora il teatro: l’altra sera, a Venezia, il gruppo catalano ha semplicemente mostrato come quell’essere sulla scena sia, al contrario, vero, reale, concreto. Con ironia e intelligenza, al tempo stesso, ha mostrato la finzione possibile dell’essere altro, del mescolare e confondere le acque. Senza prediche o moralismi, i performer hanno portato l’evidenza della sincerità. Hanno bisbigliato la verità. L’attore, l’attrice, sono oggi più che mai portatori di una verità: non della Verità, con la maiuscola, perché per fortuna non c’è un Vero assoluto, non abbiamo verità in tasca da spacciare come uniche e incontrovertibili (l’unica verità, semmai, è quella del dubbio, della domanda). Ma le verità risiedono nella presenza, nell’esserci, nel comunicare diretto, nel dirsi in faccia e nell’ascoltarsi reciproco. Nella tragedia greca, il messaggero era “anghelos”, portavoce degli Dei. Veniva creduto, in quanto tale. Non spacciava fakenews. Era ascoltato e omaggiato. L’attore, l’attrice, oggi più che mai sono “anghelos”, sono – devono essere – portatori di una voce diversa capace di sospendere il flusso ininterrotto delle immagini manipolate o manipolabili; di sospendere il tempo immediato (il grottesco “tempo reale”) dell’azione-reazione fondante la comunicazione sui social. È quel che mi piace, ancora oggi, del Teatro: questo essere una possibilità alternativa, un segnale in perenne e storica controtendenza, un attivatore di pensieri altri. Il teatro è il luogo della democrazia discorsiva e del tempo in cui tenere aperti i possibili, in cui smontare i pregiudizi e le convinzioni incarognite del pensiero omologato. Alla fine – lo diceva tempo fa il drammaturgo e regista Marius von Mayenburg – il teatro è lo spazio della libertà: in cui tutti possono essere tutto. Essere se stessi, fino in fondo. Forse è questa la piccola verità da bisbigliare.
Nell’immagine di copertina: una scena di The Mountain di Agrupación Señor Serrano
Alla Biennale Teatro 2021 è attivo, assieme a molti altri, anche un workshop di scrittura critica, durante il quale proviamo – assieme a un manipolo di giovani e giovanissimi laboratoristi – a riflettere su alcuni dei temi che ho intrecciato anche per questo articolo. Gli esiti di scrittura si trovano qui.
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