Teatro

Il Teatro dell’Elfo nel grande gioco di Afghanistan

28 Ottobre 2018

Quando, in apertura della seconda parte di Afghanistan, lo spettacolo maratona del Teatro dell’Elfo presentata all’Argentina di Roma, una violentissima grandinata ha fatto pressoché sparire nel rimbombo le voci degli attori, si è creata una strana sensazione, almeno per me. Mi sono trovato prima a chiedermi candidamente che strano “effetto” fosse, poi a pensare a come potrebbe essere vivere sotto le bombe, vivere in quel frastuono cupo, costante, pericoloso. Vivere scappando per non morire.

Afghanistan è uno spettacolo, certo – diretto con mano sicura da Ferdinando Bruni e Elio De Capitani – ma è anche una implacabile testimonianza, un affresco, anzi un polittico che mostra con sapienza brechtiana i meccanismi della storia. Lo sappiamo come procedeva Bertolt Brecht: al centro poneva l’abbrutimento progressivo di Madre Coraggio e sullo sfondo la guerra dei Trenta anni. Stava allo spettatore, poi, collegare le due cose, capire quanto e come fosse la guerra la vera responsabile della tragedia umana di Mutter Courage. Qualcosa di simile si avverte calandosi nella maratona di oltre sei ore che mette assieme i due grandi “volumi” di cui è costituita questa storia (scenica) dell’Afghanistan: Il grande gioco e Enduring Freedom.

Sono cinque capitoli per ogni volume, ovvero dieci testi in tutto, scritti su commissione da altrettanti nomi della drammaturgia inglese, tra cui spiccano David Greig, Simon Stephens, Naomi Wallace per un progetto voluto dal Tricycle Theatre di Londra e che l’Elfo ha meritoriamente tradotto e fatto proprio.

 

Foto di Laila Pozzo

Scritture diverse, prospettive mutevoli, tessere di un mosaico che vanno a comporre – o meglio a scomporre e ri-comporre – la grande, complessa storia di quel lembo di terra, forte e folle, chiusa tra Russia, India, Iran. Terra senza pace, se la prima guerra anglo-afgana risale a metà ottocento e ancora oggi vi si combatte. Area di “influenza” inglese, dunque, poi sovietica, quindi americana, con quelle “Missioni di pace” che hanno il rumore cupo e sordo dei cannoni.

Si impara tanto, nella prima parte, da quel grande e cinico gioco che ha mosso vite umane come pedine, che ha creato confini e signori della guerra, che ha portato fame, freddo, morte. La prospettiva è storica, volutamente didattica, a tratti eccessivamente didascalica, ma sempre capace di mettere in relazione il territorio con le prese di posizione delle cosiddette grandi potenze, del tempo e di oggi.

Magari si potrebbero evitare, non ce n’è bisogno, certi accenti “orientaleggianti” che sicuramente connotano l’esotico ma rischiano di buttarla in parodia (e Peter Sellers è dietro l’angolo). Però non mancano, da subito, dei bei quadri: come quello della fuga in auto della famiglia reale, Amanullah Khan, re dell’Afghanistan nel primo ventennio del Novecento, con sua moglie Soraya Tarzi e il di lei padre, Mahamud Tarzi da sempre amico del re. È una resa dei conti, è la consapevolezza dell’impossibilità di avere uno stato libero.

Dopo la grandinata folle, la seconda parte affonda maggiormente nelle tensioni dell’oggi. Sono storie di un passato recente o di un presente ancora ferocemente irrisolto, segnato dall’uccisione di Ahmad Massud (ve lo ricordate?), poi dall’arrivo dei Talebani, dalle contraddizioni della cooperazione e delle ONG, dal trauma delle missioni di guerra in tempo di pace. Chi ci pensa più all’Afghanistan di fronte alle nuove emergenze? E invece, da qui, se ne ricava l’amara consapevolezza che di un secolo di storia quel che resta è la morte della povera gente, delle tante vittime inconsapevoli – donne soprattutto, costrette a scomparire prima nascoste dall’orrido burqua poi colpite a morte – senza vie di fuga, in un finale lirico e apocalittico, dolente e amaro che è coronamento poetico dello spettacolo.

 

Foto di Laila Pozzo

Non servono troppi guizzi registici quando si hanno a disposizione testi belli ed efficaci (non tutti allo stesso livello, ma sicuramente ben compattati) e un gruppo d’interpreti instancabile nell’attraversare ruoli, situazioni, momenti storici, drammaturgie. E vale citarli tutti, in rigoroso ordine alfabetico: Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossei Taheri, Giulia Viana. Sono giovani, bravi (alcuni molto), diretti, immediati, disinvolti, davvero capaci. Poi ci sono i coinvolgenti e utilissimi video di Francesco Frongia, a commentare, ambientare, puntellare, indicare o specificare le situazioni e le scene funzionali e costumi coerenti di Carlo Sala a completare il lavoro.

Insomma, senza prosopopea o senza far troppi intellettualismi, siamo di fronte a uno di quelle ampie, ariose, toste, civili, messeinscena dell’Elfo, da Angels in America a History Boys.

La prospettiva dello spettacolo è, per forza di cose, molto inglese, venendo i testi da Londra. Però la dice lunga sui meccanismi del potere, sulla speculazione, sulla guerra, sulla droga, sull’immigrazione, sui soldi, sul capitalismo. Meccanismi di cui l’Italia è parte integrante. Si esce sapendone di più e con la voglia di saperne ancora di più, con il desiderio che certi scempi violenti criminali volgano al termine.

E intanto Brecht, di lassù, sorride contento.

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