Teatro
Il teatro del Grande Morto
Forse l’abbiamo sfangata: dopo un anno di celebrazioni dedicate a Shakespeare, a Pasolini e alla Prima Guerra Mondiale possiamo uscire dal tunnel e magari pensare e fare qualcosa d’altro.
Ma si sa, l’Italia campa di celebrazioni. È sempre il momento del Grande Morto da ricordare, omaggiare, riscoprire.
Bisognerebbe quasi aggiornare la “carriera dell’intellettuale” di Alberto Arbasino: Brillante Promessa, Solito Stronzo, Venerato Maestro, e ora – aggiungiamo noi, sperando che il maestro Arbasino non se ne voglia – ecco il Grande Morto.
La riscoperta celebrante è il nostro forte: prima bruciamo gli eretici in piazza, poi li sdoganiamo e li rivalutiamo. Ma col Grande Morto si può fare una stagione teatrale, addirittura arricchita da finanziamenti speciali ad hoc, che incoraggiano e favoriscono il rito celebrante.
E se unisci il Grande Testo e il Grande Nome è fatta.
Quest’ultimo, in particolare, è una variante presente del Grande Morto. Il Grande Nome è il testimonial di Carosello: è Antonio Banderas che tra una fetta biscottata e una brioscina fa La Tempesta. Cosa c’è di meglio per il Grande Pubblico? Che bella cosa il Grande Nome: tutti a inseguirlo, per far “botteghino”, per far successo. “Serve il Grande Nome”: quante volte l’avete sentito dire?
Il nostro teatro si sta mutando in qualcosa di vagamente necrofilo-pubblicitario.
Parliamo le parole dei morti, diceva Luigi Pirandello: ma qua cominciamo anche a specularci un po’ troppo.
Il Belpaese è tutto un Altare della Patria: siamo una nazione che si regge sulle parrocchie, le caserme dei carabinieri e i cimiteri. Portiamo il nostro cristo in croce e lo omaggiamo sempre di nuovo, inginocchiandoci devoti.
Il passato non passa: e guai a chi pensa al futuro. Meglio attenersi alla mortalità (che poi alla natalità ci pensa la gagliarda e fiera campagna della Lorenzin). La mortalità è un usato sicuro, è un non-rischio. Che vuoi rischiare con l’ennesima variazione di Romeo e Giulietta?
Magari se lo fai un po’ strano, ci metti quel brivido di provocazione in più, e il Grande Pubblico dovrebbe correre affezionato e fedele: ma non si stanca mai, l’abbonata di Vigevano?
Nel 2016, allora, abbiamo avuto casse di Militi ignoti sul fronte del Carso, di Shakespeare e di Pier Paolo Pasolini. Ci sono un po’ sfuggiti Cervantes e Garcia Lorca – a proposito del quale, a parte un paio di articoli da “cold case” su dove stanno le ossa non ho notato molto (ed è un peccato che certi testi non sono proprio male, no?).
Invece rincorriamo il Grande Morto come nume, come faro, come “nostro contemporaneo”, come classico che si rinnova.
Chiariamoci: va benissimo, ché Shakespeare è sempre Shakespeare. E Pasolini è sempre Pasolini. Oppure – tanto per citare uno che adesso “si porta tanto” – Cechov è sempre Cechov. Fateci caso: abbondiamo di Cechov, lo abbiamo in tutte le sue varianti e possibilità. È vero, Anton Pavlov ci parla oggi più che mai, ma non sembra anche a voi che sia un po’ troppo sfruttato? Quanti Ciliegi, quanti Zii, quanti Gabbiani per la prossima stagione?
E i nostri autori, i famosi autori contemporanei, che fine fanno?
A quelli ci pensano i festival, le seconde sale, le rassegne dedicate. Il contemporaneo – lo scriveva anche Renato Palazzi recentemente sul Sole24ore – però poi non sfocia, non sbocca nei palcoscenici principali dei Teatri Nazionali. Per quelli serve il Grande Morto.
L’usanza, del resto, non è solo “artistica”, ma direi “culturale” a tutto tondo. Nel paese del Patrimonio, l’investimento è assai relativo rispetto alla conservazione. Eppure, in tutto il mondo si parla di Performing Heritage, ossia – per dirla grossolanamente – di far vivere, qui e ora, il museo, l’archeologia, insomma la fruizione generale dell’arte. Il teatro, per quanto animato da “Spettatori partecipanti”, rischia di diventare sempre più una commemorazione, una mesta cerimonia funebre in memoria. L’omaggio al passato è d’obbligo.
Anche qua, intendiamoci: è fondamentale sapere la storia, quel che c’è stato prima, cosa e come è successo. Ma se non tagliamo i (tanti) cordoni ombelicali, la ricerca – per dire – sarà sempre quella degli anni Settanta e il teatro borghese o di regia sarà sempre quello degli anni Cinquanta.
Facciamo un passetto oltre?
Spostiamo il limite un millimetro più in là, come invocava Marino Sinibaldi in un bel libro?
Non so. Tra il Grande Morto e il millimetro mi sembra vinca il primo. È il Commendatore che torna per cena. Bevendo Marzemino, Allegri e commossi, lo vediamo aleggiare sul palcoscenico di quei “sepolcri imbiancati”, come li chiamava Nicola Chiaromonte, che rischiano di essere i nostri bei teatroni nazionali. Tanto vale prepararsi già per il 2017. Che so: 500 anni dalla Riforma di Lutero, possiamo farci spettacoli o il Vaticano si incazza? Meglio cinquanta anni dalla morte di Luigi Tenco? “Vedrai vedrai” in forma di monologo? Ecco! 120 anni dalla morte di Brahms! Ah, no, quella è musica…
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