Teatro

Il teatro anarchico e poetico di Mariano Dammacco

25 Settembre 2016

Ha una strana, inafferrabile dimensione anarchico-poetica il teatro di Mariano Dammacco e della sua Piccola compagnia. Nell’arco di pochi giorni è stato in scena per il festival Teatri di Vetro, negli spazi del vivace Carrozzerie Not a Roma, con L’inferno e la fanciulla. Poi al Piccolo di Milano, nell’ambito della bella rassegna Tramedautore, organizzato da Outis, con Esilio. Accompagnato e assecondato da un’attrice di qualità e giovanissima come Serena Balivo, (con Stella Monesi a completare il nucleo artistico), Mariano Dammacco ha una storia lunga e appartata.

L’avevamo conosciuto – e pluripremiato – negli anni Novanta, quando faceva parte dello storico gruppo pugliese Japigia Teatro. Lo ritrovammo dopo, molto dopo, a Brescia e infine a Modena, in un peregrinare geografico e sentimentale che rispondeva alla sua congenita ansia di non-radicamento, di marginalità quasi cercata ma certo non voluta, di rifiuto di quelle regole della moda o delle tendenze che promuovono tanto nostro teatro. Era un enfat prodige, e si è ritrovato a dover ricominciare da zero. L’ha fatto, e ha fatto bene.

Dammacco poteva essere un artista “pugliese”, ma ha preferito scegliere una sorta di esilio, appunto (non a caso titolo del suo ultimo spettacolo), che rifiutava l’idea stereotipata e semplicistica del Sud pugliese, e che tracciava invece una nuova geografia del sentimento. La sua è una stralunata appartenenza ad “altro”, a un teatro decisamente di parola, addirittura monologante (se quei monologhi non fossero altrettanti dialoghi con interlocutori immaginari o presentissimi). È un teatro sicuramente ben scritto, quello di Mariano: sulfureo, astratto eppure concretissimo, tanto che lo storico del teatro Gerardo Guccini – presentando un prezioso volumetto edito da L’Arboreto che contiene L’inferno e la fanciulla – ha ripreso la definizione di Metarealismo, coniata da Octavio Paz. Non tanto il “realismo magico” ormai abusato in letteratura, quanto quella che Guccini chiama la «finzione non fittizia» del teatro, che «agisce come moltiplicatrice di realtà teatrali. Così il concetto di metarealismo ci aiuta a riconoscere nel teatro un organismo composto di realtà non realistiche che parlano del reale (un po’ come faceva il grande spettacolo barocco). È una nozione che corrisponde al gusto per l’allegoria, per il grottesco, per la realtà alterata» che è della Piccola Compagnia Dammacco.

Sicuramente calzante e illuminante, l’indicazione illustra bene la folgorante creazione de L’inferno e la fanciulla, scritto a quattro mani da Dammacco assieme a Balivo.

Spettacolo breve, sorta di apologo certo non moraleggiante, anzi. Al centro della vicenda vi è una donna-bambina, o forse una bambina-donna che evoca (o racconta) il suo debutto in società: l’ingresso a scuola.

La storia si dipana per quadri, che sono evocazione di un viaggio negli inferi del mondo e della realtà: tra maestre imponenti e bambini deludenti, la fanciulla arriverà nientemeno che a tu per tu con Satana. È una visione del mondo angosciante e grottesca, sussurrata con sottile ironia e con straniante efficacia anche grazie all’interpretazione della Balivo, che si incarna in una bambina-bambolina dalla vocina stridula e leziosa. L’operina ha momenti divertenti, altri toccanti, ma su tutto prevale un senso di disagio, di aspro e stridente fastidio.

Quella creaturina sapiente e selvatica si muta in un istante, infatti, nella consapevole voce di un’altra, donna matura forse, certo contraltare della bambina. Possiamo immaginare che la voce appartenga alla donna che verrà o che era, sicuramente è di una persona portatrice di disagevoli e faticosi traumi dell’esistere e dello stare al mondo. “L’inferno sono gli altri” suggeriva il poeta: ma qui, per Dammacco e Balivo, l’inferno è il magma interno e interiore, è il desiderio spasmodico di libertà, è il sogno candido che si muta in incubo, è la rabbia di non entrare, mai, nei giochi della vita. È la lucidità di sguardo di chi, alla fine, ha capito che poco e nulla resta da fare, se non, forse, provare a sopravvivere.

I quadri si susseguono, accompagnati o intervallati da musica, sino a un delirio immaginifico dai toni apocalittici e onirici, che si tramuta in un attimo in amara consapevolezza del sé: “stiamo nell’inferno con dignità inimmaginabile”, dice la donna-fanciulla. Nel combattimento corpo a corpo contro noi stessi, non ci sono alleanze possibili, né tregue da rispettare. Si tratta di stare in trincea, con l’elmetto ben stretto: appena sollevi un po’ la testa, pensi di poter respirare, arriva la mazzata. Non è così?

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