Teatro

Il teatro a Milano: tra sistema, memoria e Storia

21 Novembre 2017

E alla fine bisogna ammetterlo: a Milano, si sta bene. Anzi, si sta “meglio”. Meglio di Roma, certo: con quella metropolitana che funziona, le strade pulite, il traffico più o meno regolare…

E soprattutto, per quel che ci riguarda, con un sistema teatrale che funziona. Con una civiltà teatrale, insomma, che porta un pubblico serio, competente, intergenerazionale (non solo di addetti ai lavori) ad affollare i teatri, strutture accoglienti e abitate da “teatranti” un po’ meno stanchi e affannati che non a Roma. Magari anche lassù al Nord ci saranno scontri e gelosie, ripicche e competizione, ma mi pare che un “sistema teatrale” quei teatranti l’abbiano voluto, creato, e lo stiano gestendo.

Altrimenti non sarebbe possibile una manifestazione come Next, organizzata con sapienza da Agis e Regione Lombardia con Fondazione Cariplo.

L’iniziativa, che si svolge in sale teatrali diverse (Franco Parenti, Elfo, il Piccolo) è una sorta di showcase, di mostra di spettacoli a venire. Insomma, è una carrellata composta da brevi presentazioni (una ventina di minuti ciascuna) delle produzioni prossime o recenti. Destinata agli operatori nazionali di settore, che possono vedere così cosa “bolle in pentola” a Milano e in Lombardia, Next è anche un mini-festival, utilissimo spaccato per cogliere tendenze, possibilità, campi di ricerca.

Per quel che mi riguarda, ho potuto assistere solo a una mezzagiornata, dunque non abbastanza per poter dare conto dell’intera manifestazione, e mi sembrerebbe ingiusto parlare solo degli spettacoli visti. Voglio però sottolineare anche io – non ce n’è bisogno, ovviamente – la qualità dell’iniziativa e la sua opportunità, perché conferma, in sostanza, quel che si diceva: ovvero quanto e come i teatri milanesi siano non solo “strutturati”, ma anche chiaramente identificabili nelle proprie progettualità e personalità.  Anche da una simile prospettiva, credo, sarebbe più complesso esportare il modello Next a Roma: una città in cui si registra, invece, una certa qual confusione di “mission”, dove si tende a far di tutto, ancorché male, dove si sovrappongono spesso codici e linguaggi, offerte e domande, in una lotta di tutti contro tutti, dovuta (anche ma non solo) all’endemica scarsità di mezzi. L’attuale giunta capitolina e l’assessore Luca Bergamo stanno provando, va detto, a regolamentare la situazione, ma quel “modello milanese” sembra però ancora lontano, nonostante la presenza a Roma, come è noto, di quell’Antonio Calbi che è stato proprio uno dei fautori della organizzazione teatrale meneghina.

Elio De Capitani e Renato Sarti, foto di Massimiliano Boga

Alla fine di Next, poi, sono restato nella bella e centrale sede del Teatro dell’Elfo, su corso Buenos Aires per mangiare una cosa all’accogliente bistrot del teatro e poi vedere uno spettacolo (non nel cartellone di Next) che mi ha lasciato senza fiato.

Sto parlando di Goli Otok, scritto da Renato Sarti, anche in scena con Elio De Capitani. Lo spettacolo non è nuovo – la prima versione risale al 2014 – ma per me è stata una bruciante novità. Chi sa qualcosa di Goli Otok? Di quella che è chiamata l’Isola calva? Quell’isola maledetta poco distante da Fiume, nell’arcipelago del Quarnaro? Non molti, temo.

È stato un campo di concetramento della Jugoslavia di Tito, un campo terribile, durissimo, dove finivano i “comunisti” fedeli al Kominform, ossia alla Russia di Stalin, contrari all’apertura titoista. In quel campo di concentramento sono passati in tanti: tra questi Aldo Juretich, studente e comunista, figlio di un’Europa che si mescolava sulle sponde dell’Adriatico, di quel crocevia che intrecciava italiani, russi, bulgari, greci, e certo croati, serbi: un mondo da sempre ribollente, etnie e religioni diverse sospese eternamente tra convivenza e  devastanti conflitti.

Goli Otok è il paradigma di un regime, della violenza coercitiva esercitata nella ex Jugoslavia per mettere a tacere gli oppositori, i “traditori”, gli “internazionalisti”. Ed è la storia vissuta da Aldo, nato a Fiume ma ritiratosi poi a vivere a Monza. Qui, anche grazie al sostegno della moglie Ada, troverà la forza di vuotare il sacco, di raccontare gli orrori e le violenze subite in due anni di reclusione, dal 1948 al 1950. Il primo a raccogliere in un libro tracce e memorie su Goli Otok è stato Giacomo Scotti, ma da quel libro è partito l’autore, Renato Sarti, per incontrare lo stesso Juretich, per raccogliere la sua testimonianza e farne teatro. Teatro di fibra robusta, amara, dolente, dura da digerire.

De Capitani e Sarti in “Goli Otok”, foto di Emiliano Boga

L’allestimento è semplice, essenziale: i due attori vestiti in giacca e cravatta, poi una scrivania, una pila di libri. E anche una struttura drammaturgia è chiara: una sorta di intervista. Ma quel che brucia, e che colpisce, sono le parole, la storia. Dette con semplicità, quasi con candore (eppure con consapevole fermezza), da Elio De Capitani che si impossessa della figura di Aldo Juretich, evocandone la misura e la passione, l’ironia e la forza. Accanto a lui, Sarti è un interlocutore-intervistatore discreto, comprensivo.

Il dialogo che ne scaturisce è stringente, a tratti asfissiante: «ci fecero spogliare – racconta Juretich/De Capitani – ci rasarono i capelli e ci sbatterono in mare, era il 13 novembre 1949, pioveva e soffiava la bora. Dopo questa pulizia ci indirizzarono nudi e scalzi (…) tra le due file degli addetti al nostro ricevimento c’era una specie di strada formata da pietre appena spezzate, era rossa di sangue che usciva dai nostri piedi». Oltre alla visione generale, sono i dettagli a essere intollerabili, quei particolari, che danno umanità alla storia, che fanno concreta la violenza indicibile, che rendono possibile l’impossibile. Uomini trattati come bestie, distrutti, umiliati, ben dopo l’orrore dei campi di sterminio nazista.

C’è un altro, nuovo, libro da segnalare, oltre a quello ormai storico di Scotti, scritto da Umberto De Pace: si intitola D’amore e Orrore (Bellavite editore) ed è stato presentato all’Elfo al termine dell’applaudita replica di Goli Otok, alla presenza di Ada, la vedova di Aldo Juretich. Sono racconti significativi, ma il teatro – e questo spettacolo in particolare – ha una forza in più rispetto alla pagina scritta: diventa materia, grana, voce a quel racconto, lo mostra in tutta la sua assurda e concretissima, inconcepibile e possibile violenza.

“Uomini e no”, regia di Carmelo Rifici

Se l’approccio di Sarti e De Capitani è tutto proteso verso l’essenzialità aspra della parola e del racconto, diverso – ma poi non troppo – è quello del bravo Carmelo Rifici per il sontuoso adattamento del romanzo Uomini e no, di Elio Vittorini, trasposto in chiave teatrale con rigore e amorevole cura da Michele Santeramo. Al Teatro Studio del Piccolo, con un manipolo di generosi allievi della scuola, Rifici dà vita a un affresco corale, arioso e appassionante, in cui le pagine del romanzo prendono il sapore agre di una disperata vitalità. Lo spettacolo è già stato recensito su queste pagine, da Mattia Palma che giustamente evidenzia l’eredità “ronconiana” (non fosse altro per quelle “edizioni teatrali” firmate dal maestro alle prese con alcuni grandi romanzi trasposti sulla scena), e dunque volentieri rimando al suo scritto. Come pure alle considerazioni interessanti di Maddalena Giovannelli che si focalizza sulla “questione linguistica” che scaturisce da testo e allievi – e basterebbe evocare l’importanza de El nost Milan nella storia del Piccolo di Milano.

Mi piace però sottolineare la commossa e commovente presenza dei giovani e delle giovani interpreti che, seppure con contributi qualitativamente diversi, mostrano una adesione coerente e corretta al disegno registico, ricordandoci oggi, con la loro fisicità, con la freschezza delle voci, quanto e come – in quegli anni bui della nostra storia – fosse necessario diventare grandi molto, molto presto. Storie di uomini, nella ex Jugoslavia o nella Milano occupata, gente, persone che si sono prese a cuore il senso profondo della libertà.

Mi sembra opportuno citare tutti gli allievi attori, se lo meritano: magari presto sentiremo ancora i loro nomi. In scena, in ordine alfabetico: Giuseppe Aceto, Alessandro Bandini, Alfonso De Vreese, Salvo Drago, Caterina Filograno, Yasmin Karam, Leda Kreider, Marta Malvestiti, Benedetto Patruno, Matteo Principi, Marco Risiglione, Elena Rivoltini, Livia Rossi, Martina Sammarco, Francesco Santagada, Sacha Trapletti, Annapaola Trevenzuoli.

Applausi convinti per tutti e lacrime d’emozione dei protagonisti.

 

 

 

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