Teatro

Il Sindaco di Eduardo comanda ancora sul Rione Sanità

11 Maggio 2018

Mi inserisco, velocemente e certo superficialmente, in un dibattito eterno e irrisolto. Come raccontare la mafia, la camorra, la ndrangheta? Domanda di asfissiante importanza, poiché se ne parla poco, sempre troppo poco. E c’è anche chi si stanca, chi sbuffa annoiato quando se ne parla. C’è chi accusa di opportunismo coloro che si fanno testimoni scomodi di realtà criminali, esistenti e attive.

Ricordiamo, in questi giorni, Peppino Impastato: per fortuna c’è chi ha raccolto il testimone, chi ha imparato la sua lezione, e non si stanca di parlare.

Su questo mi interrogavo assistendo al Sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, diretto da Mario Martone. Spettacolo che ha registrato un costante “tutto esaurito” all’Argentina di Roma, e pubblico entusiasta, prodotto dallo Stabile di Torino assieme a Elledieffe, la compagnia di Luca De Filippo, con un teatro “di frontiera” napoletano giovane e coraggioso, l’ottimo NEST, premio Rete Critica 2017.

Di fronte al Sindaco anche io, come altri – lo ricorda Massimo Marino su Doppiozero parlando del percorso, lontanissimo da qualsiasi moda, di un gigante del teatro e della poesia napoletana quale Enzo Moscato – ho da principio fatto lo sbuffetto e le spallucce. Anche io, dicevo, mi sentivo di evocare quel certo “GomorraStyle” ormai imperante che indubbiamente si riverbera nella versione 2.0 di un Eduardo, insomma, che mi sembrava calato nei ritmi e nelle tendenze della nota fiction.

Il Sindaco del Rione Sanità inizia addirittura con un rap, poi una sparatoria in platea, in mezzo agli spettatori, poi il cupo dei vestiti di pelle e dei bomber. Che esagerazione! Che noia! Pensate un po’, questi che sparano in platea come se sparassero per strada… ma poi in effetti, lentamente, ho dovuto ammettere che sì, in strada sparano. Davvero continuano a sparare.

E il tempo (o la notte) porta consiglio. Così, mentre ragionavo a mente fredda sullo spettacolo visto, mentre fieramente m’interrogavo sullo stereotipo e sulle contraddizioni dell’esotico, sono incappato in qualche notizia.

Ad esempio, sul documentario “ES17, Dio non manderà nessuno a salvarci’, il docufilm realizzato da Repubblica, scritto da Conchita Sonnino e Diana Ligorio, che racconta di Emanuele Sibillo: morto 19enne, capo di una paranza di bambini, latitante ucciso in una sparatoria tra clan rivali nel centro storico di Napoli. Poi ho letto, sul Mattino, un’intervista a Patrizia Esposito, Presidente del Tribunale per i Minorenni di Napoli: «Il rischio è quello di nascere sotto tetti sbagliati, in famiglie “liquide” senza cultura né regole, che fanno crescere un esercito di ragazzini “contro”, senza legge né scolarizzazione, incapaci di relazionarsi con l’altro: famiglie maltrattanti in senso lato, che scatenano aggressività e sfide in minorenni scaltri, alfabetizzati solo informaticamente in un disorientamento educativo patologico che genera, da un lato, un processo gregario di emulazione di modelli negativi, dall’altro una vera e propria affiliazione criminale in contesti già illegali, dove giovanissimi si trovano intrappolati, anche a livelli apicali, senza riuscire a uscirne. Uno scenario di privazione precoce di sogni e desideri legati alla sana progettualità per il futuro».

Allora, certo, è vero: Napoli è mille colori, come cantava il poeta. E ogni stereotipo è stretto, vincolante, distorcente. Ma non possiamo far finta di niente.

C’è una realtà, una faccia di Napoli che è quella della Camorra, di cui non tutti parlano o vogliono parlare. La camorra, le mafie, sembrano ormai, per l’Italia, per tanti nostri amministratori, un male da sopportare con pazienza, un problema fastidioso ma secondario, un vecchio pensiero cui tornare magari scuotendo la testa, ma con condiscendenza. Allora perché insistere con quei ritratti in dialetto stretto, con quell’immaginario di macchinoni, di case kitsch, di “valori” come l’onore, la famiglia, la fede cattolica?

Ecco dunque, che così ho forse capito l’urgenza di Nest e Martone. Riportare il magnifico teatro di Eduardo con i piedi per terra. Lui che non esitò a scrivere un ritratto livido della sua città appena uscita dalla guerra, che svelò le magagne del marcato nero, dell’opportunismo, del cinismo, lui che sapeva la sua città e la sua gente, oggi assume le tinte cupe di un neorealismo ferocemente violento. Non c’è più spazio per la figura, in fondo bonaria, del Sindaco: camorrista sì, ma venerabile, rispettato, in fondo un brav’uomo.

Allora, anche se non tutto torna nell’adattamento, anche se il testo originale stride con la sua versione scenica, e certe soluzioni non quadrano, questo Sindaco è un riaffermare, volutamente, apertamente, che c’è quella camorra là, uguale a se stessa, violenta e sterile, retorica e ottusa, dominante e inarrestabile.

Non ci possiamo immedesimare più in questo Don Antonio Barracano: il suo desiderio non è metter pace, ma controllare, gestire, imporre la propria visione, le proprie regole, la propria legge. Il critico Roberto De Monticelli ricordava Eduardo nel ruolo: «il capocamorrista buono e scontroso che amministra secondo la propria equità e buon senso la giustizia del quartiere. E cosa era Eduardo in quella figurazione! Anche nel pieno dei suoi sessant’anni, con quella sua cattiveria in falsetto, le reticenze ciniche o falsamente spaventate. In realtà indugiava meno in quei suoi tipici mezzi toni, era più secco e duro, più gelido e brusco (…)  riportando però quelle violenze alle sue misure umane, alle sue segrete dolcezze».

Oggi non c’è più spazio per troppa umanità. Qui Barracano ha la verve ostile di un giovane boss in ascesa. Un coetaneo, forse, di quell’Emanuele Sibillo morto diciannovenne. Dunque risalta ancora di più – e al tempo stesso forse è uno degli aspetti che non torna – l’eccesso di spavalderia con cui il ricco panettiere Santaniello gli si oppone. Potrebbe essere uno di quelli che, con dignità, si rifiutano di pagare pizzo. O un altro aspirante boss. Santaniello ribadisce anche la distanza linguistica. Di fronte al dialetto stretto del capo e della sua banda, c’è l’italiano netto – solo un po’ di cadenza – del panettiere. È questa la risposta? È una questione culturale, oltre che di ordine pubblico? C’è la possibilità di dire no a chi vuol comandare?

Certo, la faticosa mediazione che il Don Antonio vuole fare nello scontro tra Santaniello e suo figlio si rivolterà contro di lui: l’ansia di vendetta del giovane contro il padre è per il boss un tornare alle ragioni profonde della sua scalata al potere, e la pagherà con la vita.

Lo spettacolo, insomma, nella sua intensità, avvolge e coinvolge. La storia, il racconto vero e proprio, gli attori, le architetture umane di Eduardo sono ancora fortissime. E traslate nel cupo scenario del presente diventano un macigno. Si è detto: qualche snodo drammaturgico è forzato. Ma la curata regia e la buona prova degli interpreti dà nerbo e sostanza allo spettacolo, a partire dal potente e generoso Francesco Di Leva come Sindaco, l’elegante Massimiliano Gallo come Santaniello, lo stralunato medico interpretato dall’ottimo Giovanni Ludeno. E con loro Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino, Daniela Ioia, Gennaro di Colandrea, Viviana Cangiano, Salvatore Presutto, Lucienne Perreca, Mimmo Esposito, Morena Di Leva (piccola e vivacissima figlia del protagonista), il rapper Ralph P, Armando De Giulio e Daniele Baselice.

Le luci belle e cupe sono di Cesare Accetta: illuminano il mondo di “privazione precoce dei sogni e desideri» che è la trista realtà della Camorra.

 

 

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