Teatro

Il sadico del villaggio: Marchesi nelle voci di Cardillo

27 Novembre 2019

Esiste una fenomenologia del comico che oggi prevede un ribasso di stile e un abuso di satira, ultimo baluardo di una riluttante comicità, animata più che parlata, gestuale, gergale, allergica all’intellettuale.

La comicità degli anni Venti del nuovo millennio è divisa tra i diversi canali, ognuno dei quali la propone in base alle preferenze (spesso inconsapevoli) del profilo-utente. La tv certo ha i suoi comici di culto, il cinema i suoi mattatori della risata, le serie hanno i propri talenti, fino ad arrivare al mare magnum del web e dei canali YouTube dove probabilmente in questo momento sta nascendo un outsider della comicità in un “video umoristico che farà ridere tutti”. Poi c’è il teatro. Qui, dalle origini ad oggi, in ogni sospensione del tragico, ogni silenzio, negli anfratti di qualunque rappresentazione esposta agli scherzi del reale, s’annida lo spettro di una risata.  A teatro il comico è onnipresente, trasversale, imprevedibile, così come nella più oziosa delle giornate. In questo lavoro di Maurizio Cardillo, il comico scaturisce dal sadico e questo a sua volta dal drammatico. E’ una comicità diagonale, dicotomica, autoriale che non porta la smorfia della risata ma indossa lo spirito di un fantasma. Chi si ricorda di Marcello Marchesi morto nel 1978? Un signore di mezza età con bombetta baffi e occhiali neri, autore comico-satirico di successo negli anni esplosivi della Rai. Il signore sì che se ne intende… e il signore avrà almeno cinquant’anni, se può ricordare i caroselli con Nino Manfredi o Sandra Mondaini, che posticipavano la reclusione a letto dopo la cena ai piccoli telespettatori dell’epoca. Si andava a letto solo dopo il Carosello, una conquista a lungo negoziata tra la morale pedagogica e il consumismo. Ha poi vinto il secondo, indiscutibilmente.

C’era eleganza in quel signore di mezza età contro il logorio della vita quotidiana, ma c’era anche un oscuro scanzonamento, e una velocità di battuta inquietante, feroce; il fastidio del talentuoso costretto in abiti borghesi, in quella morale democristiana che cominciava a scricchiolare negli anni del varietà dopo stagioni di censura.

Un sadico vestito e parlato (poi svestito) da Maurizio Cardillo all’interno del progetto “I linguaggi del comico” di Elena Di Gioia in collaborazione con Agorà di Bologna. Udito e applaUdito forte al piccolo teatro delle Moline della città felisinea.

Partendo da un titolo di Marchesi del 1964, graffio alla lirica leopardiana, con un malloppo inestricabile di riferimenti e refrain, Maurizio Cardillo parla e abita lo scrittore su una scena ridotta e ombrosa, a cavallo di uno sgabello lucente. E’ una serie di battute, aforismi, paradossi, ma anche gag, sketch, jingles: un frasario essenziale per non passare inosservato in società. E’ un incontro familiare tra l’attore e il fantasma dello scrittore, morto in circostanze davvero improbabili, a quanto si dice sollevato da un’onda contro gli scogli del golfo di Oristano. Un uomo che diceva l’importante è che la morte ci trovi vivi.

Il gesto è minimale, lo spazio limitato al seggiolino dello sgabello e pochi metri di palco; il movimento va dalla seduta fino a terra ed è azione aerea, acrobatica, diretta idealmente all’infinità di parole possibili tra una vocale e l’universo dei significati, di neologismi velenosi, nella foga logorroica che porta il segno di una comicità genetica, al limite del patologico. L’attore è in smoking, camicia bianca, scarpe di vernice e papillon: l’eleganza è comica. La svestizione che avverrà attraverso precisi movimenti da trapezista lascerà l’attore in pigiama pronto a una quiete, improbabile sonno.

C’è un’aria sinistra nelle movenze di Cardillo che vibra le braccia decantando in sussurri e vocalizzi la svagatezza malinconica della sera. E’ un susseguirsi frenetico di espressioni facciali e mimiche d’autore che sanno richiamare in vita Ugo Tognazzi nei baffi accennati e nel sorriso sardonico, Paolo Panelli nella fissità degli occhi tondeggianti, dive del piccolo schermo, malati di vita e morti d’infamia; la parola segue la smorfia, la bocca si contorce al suono, la voce, magistrale protagonista di questo lavoro, rianima il fantasma di Marchesi e di tanti suoi amici. Il buio intorno, luci calde e basse, via via roventi contro l’asse rotatorio che s’imporpora o verdeggia acido nelle diverse fasi del flusso, trespolo dal quale parte la raffica di battute a più idiomi e a più voci, sorretta qua e là da sghembe entrate audio di repertorio Rai, tutto di fila per oltre un’ora, senza tregua fino all’ultimo, quando ancora non afono, lui non ha detto tutto. Lui chi è? Lui sono tutti insieme, fellinianamente, i personaggi e gli autori, nel disordine di qualche speranza, parafrasando un aforisma di Marchesi.

Elegantemente truce, discontinua comicità: sadica, con le cesure, le cesoie, le fratture, le frattaglie, le freddure della sospensione comica che interrompe il tragico quotidiano incedere delle cose. Che cos’è, Taratapunzie-e/non lo so, Taratapunzi-o… cantava Marchesi, esaltando il caos divertito del suo tempo migliore. E’ questo il sadico di Cardillo, dalla luce al buio, dallo smoking al pigiama, dalla logorrea asfissiante alla possibile morte per congestione da eccessivo malloppo. Andata e ritorno per quattro repliche consecutive non stop.

La smorfia di dolore alle prime battute sul volto dell’attore si scioglie lenta nella confidenza che il pubblico a due passi concede; come sgravandosi di un peso (il famoso malloppo) col passare dei minuti, il volto prima s’indurisce poi si distende, mestamente, verso un finale spettrale ma quieto.

 

C’è contiguità tra dramma e comicità: mai un istante di conforto, mai un’esitazione prima del colpo inferto, anche a sé stessi: questo fu Marcello Marchesi fino all’ultimo, nella trincea minata che corre tra il lavoro intellettuale e il lavorio (logorio) dell’intrattenitore. L’omaggio di Cardillo appare per molti versi un tributo a una comicità del passato da cui tanto deriva ancora oggi, al dolore brillante e dissimulato di un autore poco ricordato, nella contrapposizione classica tra la tragicità dell’intellettuale e il pregiudizio sociale sulla comicità diffusa. In questo malloppo di parole troviamo un riso greve o singhiozzante, disomogeneo tra il pubblico colpito in alto e in basso, dallo stomaco in giù, dal fegato in su verso i denti sbiancati da Chlorodont nella parodia di Virna Lisi che con quella bocca può dire ciò che vuole.

Suda il signore in abito scuro sotto la vampa dei riflettori puntati su di lui da oltre un’ora. Magistrale e provvido sarà lo strip, con la compostezza di un sarto, tutto compiuto (e compunto) sul trespolo lucente, per coricarsi in equilibrio dolente sul minimo piano della seduta.

Shakespearianamente alla fine si muore, per sottrazione di verbo e moltiplicarsi di oscurità. Si ritirano i fendenti di luce, si accende un faro alto a suggerire un qualche dio lassù, in pietosa finale apparizione. Si staglia nel buio una testa d’uomo ancora parlante, fino all’estremo lembo di luce, fino all’ultima sillaba, o vocale: spiritato volto occhiuto che affonda lento nell’oblio del sonno.

Fiat lux, e l’attore si dissocia dall’autore nelle parole del medesimo: quando si riaccenderà la luce io non sarò più io, ma apparirà Maurizio Cardillo. Che difatti emerge sorridente nella nuova luce, liberato da tutto questo malloppo che adesso portiamo addosso noi, sorridenti e sazi.

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