Teatro
Il ritorno del Teatro Stabile di Catania
La rinascita di un teatro, di qualsiasi teatro, è un segno che dovrebbe far piacere a tutti. Tanto più se è un teatro importante, storico, come il Teatro Stabile di Catania. Dopo aver affrontato momenti di grande difficoltà, con i creditori alle porte e il personale in preoccupata agitazione, oggi lo Stabile sembra aver finalmente voltato pagina. Il commissariamento di Giorgio Pace sta portando ai risultati sperati – in via di definizione gli arretrati e i sospesi – e ora anche dal punto di vista della proposta artistica arrivano finalmente conferme. Insomma, lo Stabile catanese, a sessanta anni compiuti, si sta rimettendo in gioco: produzioni, laboratori, incontri, recupero della fiducia degli abbonati e del pubblico, che torna ad affollare la sala dello storico Teatro Verga (bisognoso però di una rinfrescata).
Allora la città risponde bene, si stringe attorno a quanti, tra mille difficoltà, hanno continuato a lavorare, con forza e determinazione. Certo, non tutto è risolto, non tutto marcia ancora al meglio: occorre aver pazienza e insistere, però, come detto, ci sono segnali che fanno ben sperare. E noi facciamo il tifo: il teatro fa bene, a chi lo fa, a chi lo guarda, e certo anche alla città in cui quel che chiamiamo “edificio per lo spettacolo” è collocato. E una città importante come Catania merita un grande teatro, che sappia muoversi tra innovazione e tradizione, che sappia coinvolgere i tanti artisti catanesi in attività, che sappia guardare anche fuori il territorio regionale.
E la stagione si annuncia seria, corposa, di grande dignità – vista la situazione da cui si partiva: oltre ad aver ospitato la prima regionale di Bestie di Scena di Emma Dante, in cartellone anche il Bellini di Napoli, e poi Roberto Andò e Fausto Russo Alesi, Giulio Scarpati e Valeria Solarino, Arturo Cirillo, Luigi Lo Cascio e Vincenzo Pirrotta, Beppe Navello, Pamela Villoresi, Ottavia Piccolo e Massimo Dapporto. Attori, attrici, registi che contribuiscono, con la loro presenza, a ridare “sostanza” allo Stabile di Catania, anche grazie alla instancabile attività di un organizzatore quale Massimo Tamalio, chiamato a portare esperienze e competenze al teatro catanese.
Non ho visto la prima produzione, quel Sei personaggi, diretto e interpretato da Michele Placido, che ha fatto già ben parlare di sé (e anche storcere il naso ai “puristi”). Ma ho infilato due nuovi lavori, uno in pomeridiana e l’altro in serale, che mi son sembrati significativi perché entrambi – ciascuno a proprio modo – rispondono a un afflato civile, politico, di confronto. Insomma, quel che potremmo dire un teatro impegnato.
Il primo è Il giuramento, testo scritto da Claudio Fava e diretto da Ninni Bruschetta. È la storia, ricostruita sbrigativamente ma non per questo superficialmente, del professor Mario Carrara, una “eminenza” – come si direbbe oggi – in fatto di patologia. Professore dell’Università di Torino, medico legale di chiara fama, docente appassionato, Carrara fu uno dei pochi “intellettuali” a non firmare il giuramento di fedeltà al Duce e al regime fascista.
Firmarono in 1238, solo in 12 dissero di no. Carrara non era un’estremista, né un rivoluzionario: faceva le sue ricerche, si batteva contro le farlocche teorie lombrosiane ancora in auge, cercava di trasmettere sapere e passione. Ma lentamente – come ne I Rinoceronti di Ionesco – la sua aula diventa sempre più nera: i giovani aderiscono al fascismo, vestono la divisa, e lui, il professore, assiste allibito, sconfitto e isolato. Non lo spalleggia nemmeno un collega socialista convinto e militante, che però, per non farsi scoprire, acconsente alla pagliacciata di giurare. Il fascismo è là, tutto in torno e ormai dentro tutti e ciascuno. Lo spettacolo racconta la vicenda con garbo, quasi con sorpresa: si sa, non c’è lieto fine. E nella sequenza conclusiva il professor Carrara è condotto in carcere, la sua cattedra in fretta assegnata a qualcuno di più fedele, di più “vicino”, di più malleabile.
Non credo – o forse sì – che Fava, nonostante il suo quotidiano impegno politico, potesse prevedere quanto attuale fosse il suo testo: non solo per la recrudescenza fascista in Europa e in Italia, che è ormai un dato di fatto, un’emergenza, ovvero il segno di un tempo cupo, violento, arrogante. Un tempo in cui è estremamente facile il passaggio dalla “goliardia” dello spettacolo, che ora è la tifoseria, allo squadrismo. Ma anche per la prassi, più subdola, meno eclatante, eppure come non mai vera, di allinearsi al potere, qualsiasi esso sia, di assecondare il più forte. Quanto è difficile, anche oggi, dire di no…
Il giuramento ha scatti un po’ nervosi, un po’ troppo meccanici, alcuni passaggi potrebbero essere limati e forse approfonditi, anche perché gode di un buon cast, giovane e generoso: David Coco fa un gran lavoro, dà al suo Carrara una dignità profonda, elegante non scevra di ironia o delicata goffaggine: un eroe quotidiano. Accanto a lui, Stefania Ugomari di Blas interpreta la segretaria del professore, con passione e slanci che conferiscono un tono umano, privato, intimo alla grande Storia. Poi Antonio Alveario, attore di razza, che interpreta il collega e amico del professore: un “cialtrone” generoso e arguto, un combattente ma senza troppi eroismi. Con loro, il “camerata” ben affrontato da Liborio Natali, e poi il subdolo preside di facoltà allineato di Simone Luglio e la classe, in più ruoli, affidata ai bravi, Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano.
L’altra proposta del cartellone – in stagione – viene dal Teatro Neon. Si intitola Ciatu, spettacolo diretto da Monica Felloni su testi di Piero Ristagno, Danilo Ferrari, Stefania Licciardello, Manuela Partanni e Chiara Tinnirello, rielaborati dal dramaturg Federico Ristagno. Si tratta, come si sarà intuito, di una creazione collettiva, che scaturisce dal lungo e attento lavoro della compagnia catanese Neon nei territori della disabilità. È un montaggio per numeri, un racconto corale e singolare, felice e divertente, intenso e profondo. In Ciatu la normalità e la specialità si inseguono e si mescolano come anima e corpo si fondono, per regalare al pubblico una riflessione, anche amara, sull’identità e sullo stare al mondo. Ed è bello che un simile spettacolo sia appunto in stagione, prodotto dallo Stabile catanese e non relegato alla “serie B”, al socializzante o al riabilitante.
Certo, ci sono lunghezze, ripetizioni, un eccesso di segni (video, danza, etc), alcuni momenti di calo, ma subito ripresi in squarci eclatanti o addirittura esilaranti: come la parodia di Cenerentola per un solo attore, Enzo Malerba, giocata benissimo e con grande autoironia. E non mancano momenti feroci e commoventi, come l’assolo di Danilo Ferrari, artista affetto da tetraparesi spastico-distonica che gli impedisce qualsiasi movimento e comunicazione, eppure sensibile autore di un romanzo e diverse raccolte di poesie. Struggente. Grandi applausi del pubblico.
Insomma, Catania è tornata in scena. Il Sud, la Sicilia, ritrovano un teatro. Forza e coraggio!
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