Teatro
Il regista Marco Sciaccaluga ci ha lasciato
Se ne è andato Marco Sciaccaluga. È, è stato, un maestro del nostro teatro. Un erede della straordinaria tradizione della “regia critica”, di quel filone di indagine – macinato dentro e con i testi – che abbraccia un modo di affrontare il repertorio teatrale che ha segnato il Novecento.
Ho visto alcuni spettacoli diretti da Sciaccaluga, certo non tutti della sua lunga carriera, ma solo recentemente – saranno forse cinque o sei anni – ho avuto il piacere e, direi senza piaggeria, l’onore di una vicinanza. Mi piacerebbe dire amicizia, ma sembrerei esagerato: di fatto, però, ci sono state chiacchierate, battute, telefonate, ragionamenti, proposte, confronti. In un terreno che era sempre e comunque il Teatro.
A volte si parlava di viaggi, di tournée, di vino, di sigari, di calcio, di tennis, lo sport che amava frequentare da spettatore.
Con ironia, con garbo, con frecciatine anche puntute nei confronti di tanti velleitari esperimenti altrui che pure seguiva con paterna pazienza, Marco sapeva il Teatro. Il “suo” teatro, certo, ma sempre collocato in una storia più ariosa, ampia, antica che guardava a Brecht come al suo erede Benno Besson o Matthias Langhoff, per arrivare all’Italia, a quel Luigi Squarzina che ha segnato, con il “patron” Ivo Chiesa, la cultura teatrale genovese.
Marco è stato un regista dal segno nitido, sempre rispettoso della parola, dei suoi interpreti, attento lettore di drammaturgie classiche e contemporanee. Attore, anche, e di qualità, Sciaccaluga ha passato la sua vita al Teatro Stabile di Genova.
Dopo le prime “avventure” di teatro al liceo, fa il provino per la scuola dello Stabile, c’è poi l’incontro proprio con Chiesa e Squarzina: e il giovane attore e futuro regista ha a che fare, sin da subito, con tutti i grandi della scena nazionale, che avevano con Genova, come è noto, un rapporto di particolare affetto. Inutile negare che la “scuola genovese” sia stata, e sia ancora, tra le più vivaci d’Italia: e Sciaccaluga si è dimostrato pedagogo sensibile, maieuta, giocoso complice in creazioni fatte da giovani e giovanissimi sempre nel rispetto della qualità artistica. Testimonianza recente ne sono i due ultimi “saggi” (ma è riduttivo chiamarli così), fatti con gli allievi e le allieve: spettacoli dedicati alla Favola del principe Amleto – uno Shakespeare profondamente brechtiano, ironico e malinconico – e il vivace “sequel” con Rosencranz e Guildenstern sono morti, entrambi in video sulla pagina del teatro nazionale.
Parlare con Marco Sciaccaluga significava, sempre, ragionare criticamente sulla storia e sul presente della scena italiana ed europea, evocando i “grandi nomi”, a partire da Eros Pagni, Gilberto Govi, Lina Volonghi e Gabriele Lavia, poi Besson e Mathias Langhoff, Vittorio Gassman, Mariangela Melato o Franco Branciaroli e tanti, tanti altri, fino ad arrivare ai più recenti protagonisti del tanto teatro da lui diretto: Alice Arcuri, Andrea Nicolini, Sara Bertelà, Vittorio Franceschi, Elisabetta Pozzi, Orietta Notari e ancora molti altri.
Io ero spesso impreparato, certo curioso di fronte ai suoi racconti, ma non mi ricordavo certi snodi, certi passaggi della politica teatrale nazionale, e lui, l’eterno sigaro, con garbo, raccontava un aneddoto, un episodio, in modo da farmi capire meglio, da collocarmi in quel flusso di riflessioni che svelavano una forte “idea di regia”, così come una costante attenzione – direi rispetto – per i testi, per le opere di drammaturgia, che hanno segnato il suo percorso registico.
Una produzione sterminata, la sua. Dall’incredibile successo di Equus, diretto a ventun’anni (quando si dava spazio ai veri giovani…), fino ai Brecht, a Schiller, ai tragici francesi o ai testi contemporanei (magari realizzati in collaborazione con la scenografa Valeria Manari, a lungo compagna di lavoro e di vita), escluso Aristofane, che Sciaccaluga non ha mai voluto affrontare. L’ultima sua apparizione in teatro è stata in occasione della consegna dei Premi “Ivo Chiesa – una vita per il teatro”, un premio da lui fortemente voluto e di cui era presidente di Giuria. Era affaticato, dolorante, stanco, ma non ha esitato un istante: ha preso il microfono, ha parlato, ha raccontato, ha scherzato. Ha incantato tutti. Parlando di quello che era – ed è – il suo Teatro.
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