Teatro

Il potere e l’ambizione, ecco il “Giulio Cesare” del Teatro dei Venti

27 Novembre 2023

Maestoso. Sta assiso al centro della scena come fosse un Papa. E’ Giulio Cesare: a differenza della realtà in cui veniva dipinto alto e robusto questo possiede una mole considerevole, quasi gigantesca. Avvolto in un’ampia tunica rossa e color crema guarda con distacco, come fosse sul cucuzzolo di una montagna. Ma anche le montagne un giorno possono cadere. E andare in frantumi. Non importa quanti regni hai conquistato. Quanti ori e ricchezze, tu, Cesare, abbia portato a Roma, se poi questa, irriconoscente, si volterà dall’altra parte quando crollerai rovinosamente a terra. Alle undici del mattino del 44 Avanti Cristo. Ucciso da ventitrè coltellate. Una di queste è dell’amato figliastro. “Tu quoque, Brute, fili mi”. Anche tu, Bruto, figlio mio, sei della partita?

Le ragioni del potere e quelle dell’ambizione. A volo radente la realtà della tragedia non appare così lineare per chi afferma di lottare contro la tirannide. Quello che doveva accadere accade per riposizionarsi successivamente, cercando la scorciatoia giusta, per affermare sé stessi e il proprio potere. E’ un “Cesare” da Shakespeare che non nasconde ma porta in superficie interrogativi e temi che nel successivo “Amleto” diventeranno centrali. E non è forse un caso che dopo l’allestimento del “Cesare”da parte del Teatro dei Venti, in collaborazione con Ert/Teatro Nazionale, regia di Stefano Tè, che ha debuttato nel carcere di Modena  lo scorso febbraio e pochi giorni fa nello spazio _ ancora in costruzione _ del Nuovo Teatro delle Passioni di Modena, è stata a ruota la volta del Principe di Danimarca…

Marc’Antonio (Dario Garofalo) piange Giulio Cesare nell’allestimento del Teatro dei Venti a Modena (Foto di Chiara Ferrin)

“Cesare” è da considerare infatti come il primo capitolo di una trilogia interamente dedicata a Shakespeare che si chiuderà in dicembre (il terzo dopo “Cesare” e “Amleto” sarà “Macbeth” in versione di radiodramma sempre con i detenuti attori), prodotto finale di una serie di attività condotte dalla compagnia modenese all’interno della Casa Circondariale di Modena e quella di reclusione di Castelfranco Emilia. Il Teatro dei Venti è vincitore di un bando europeo (Creative Europe) che coinvolgerà per trenta mesi organizzazioni e istituti penitenziari di diversi paesi europei e uno della Serbia. Da molti anni il Teatro dei Venti lavora regolarmente con impegno e sacrifici all’interno delle carceri, realizzando spettacoli e laboratori, ottenendo risultati significativi. Un’opera che ha avuto da molte parti il giusto riconoscimento per il certosino e quotidiano lavoro di ricostruzione di percorsi di vita e cultura di uomini rinchiusi dietro le sbarre. Il “Cesare” visto in uno spazio ridotto, che potrebbe ricordare quello di un teatro kabuki per via della passerella orizzontale, “hanamichi”, che taglia in due il pubblico, è il risultato di un laboratorio tenuto dalla compagnia diretta da Tè nei due carceri assieme agli undici detenuti attori capaci di impersonare con attenzione i personaggi della tragedia, dai comprimari alle comparse, avendo come “faro” in scena un attore di buona stoffa, preciso nel ruolo di Marco Antonio come Dario Garofalo e un elegante commento musicale della ottima violista di origine albanese, Irida Gjergij che, con lo strumento e la voce, regala accenti di melodramma.

Giulio Cesare riceve mentre raccoglie l’esortazione di un indovino di guardarsi dalle Idi di Marzo (Foto di Chiara Ferrin)

Stefano Tè da parte sua, come è nello stile registico che gli appartiene, ha lavorato per sottrazione, asciugando il testo di una tragedia spigolosa ed eminentemente “politica”, avendo come compagno di guida per la drammaturgia, Massimo Don. Il lavoro di rifinitura, nei fatti, ha determinato una “iconizzazione” dell’opera con i valori e le tematiche rivelati senza opacità e mimetismi. Questo ha permesso di agire verso una naturale traduzione del linguaggio dei personaggi del “Julius Cesar” divenuti uomini tra gli uomini. Ciascuno, a partire dal “dictator” a Bruto, mostra la propria umanità: fatta anche di debolezza, spirito di vendetta, sete di potere e sensi di colpa. Dall’indifferenza di Cesare per la messa in guardia dell’indovino (“Guardati dalle Idi di marzo”) e l’altra della moglie Calpurnia (Irida Gjergij) che lo implora di non recarsi quel dì in Senato, fino ai tormenti di Bruto che vuole sete di giustizia per Roma ma allo stesso tempo è dilaniato dall’idea di dover tradire Cesare. Il tutto in un allestimento che, rispettando l’incedere della tragedia si concentra in poche ed essenziali casematte. Quella del potere e dell’ambizione, l’altra del tradimento e la vendetta. Una considerazione al fondo: non è che se muore un despota o supposto tale, venga eliminato il problema della tirannia…

Il gruppo dei congiurati dopo l’assassinio al Senato di Roma del “dittatore” Giulio Cesare (Foto di Chiara Ferrin)

Prende così forma un chiaro affresco contemporaneo di un’epoca importante per la storia di Roma, ma pure quella universale in cui si confrontano, forse per la prima volta, con veemenza e passione visioni politiche così differenti e contrastanti.

Cassio incita Bruto a prendere posizione contro Cesare. Bruto tentenna ma deciderà alla fine di uccidere il padre per salvare Roma e la democrazia. Calerà così la sua lama assieme a quelle dei congiurati, ombra tra le ombre del Coro che circonderà Cesare come uno stormo di corvi. L’atto cruento non si vedrà ma se ne potrà indovinare il movimento dal frusciare delle tonache. Questo è il cuore nero del racconto. Da qui discendono gli altri episodi che vanno in una successione già scritta dalla storia. Il Senato affascinato dall’eloquio di Marco Antonio (bella la prova attorale di Dario Garofalo) passa, dall’assoluzione per l’eliminazione di Cesare alla condanna.

L’attore Dario Garofalo impersona Marc’Antonio che svela ai Romani il testamento di Cesare (Foto Chiara Ferrin)

Marco Antonio, militare e grande amico di Cesare che, in un primo tempo, aveva fatto il pesce in barile davanti alla congiura, da consumato politico, nell’orazione funebre di Cesare instilla il dubbio su Bruto, massacrato con parole di fuoco, lasciando cadere su di lui, come un velo, l’ombra del tradimento. Ma è l’annuncio di aver trovato il testamento con cui Cesare favoriva la plebe a fare da detonatore a una possibile rivolta. Grazie anche alla sua retorica Marc’Antonio conquista il popolo romano seminando dubbi, uno dietro l’altro (non aveva forse Cesare rinunciato per ben tre volte alla corona di re?) e da qui si scatenerà l’ennesima guerra civile (di forte effetto coreografico la danza che emula le battaglie da parte degli attori abbigliati con le gonne lunghe dei dervisci). Cassio, che assieme a Casca aveva ordito la congiura trascinando poi Bruto, scappa con quest’ultimo a Filippi, in Grecia. Dopo il litigio e la riconciliazione Bruto e Cassio troveranno lì la morte.

Il litigio tra Bruto e Cassio dopo l’uccisione del grande Giulio Cesare (Foto Chiara Ferrin)

Così l’orazione di Marco Antonio davanti al cadavere di Cesare: “Era mio amico, fedele e corretto con me; ma Bruto dice che era ambizioso, e Bruto è un uomo d’onore. Aveva portato molti prigionieri a casa a Roma, i cui riscatti avevano fatto riempire le casse dello stato. In questo Cesare sembra ambizioso? Quando i poveri avevano pianto, Cesare aveva pianto; L’ambizione dovrebbe essere di una stoffa più dura. Tuttavia Bruto ha detto che era ambizioso; e Bruto è un uomo d’onore; Voi tutti avete visto che ai Lupercali per tre volte gli ho offerto la corona reale, che lui per tre volte ha rifiutato: era questa ambizione? Tuttavia Bruto dice che era un uomo ambizioso; e Bruto, sicuramente, è un uomo d’onore. Non parlo per confutare ciò che ha detto Bruto, ma sono qui per dire ciò che so. Una volta voi tutti lo avete amato, non senza motivo. Quale motivo, dunque, vi trattiene dal lamentare la sua morte? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cesare e debbo tacere sinché non ritorni a me….”

Il momento della riappacificazione tra Bruto e Cassio che fuggiranno a Filippi dove troveranno la morte (foto Chiara Ferrin)

Fin qui il racconto shakespiriano che in finale presenta Ottaviano, futuro capo di Roma e il riconoscimento da Marc’Antonio nei confronti di Bruto, unico cospiratore mosso non per invidia del grande Cesare ma per il bene di tutti.“This was a man” dice Marc’Antonio. Ma, sia in Shakespeare che nella lettura di Stefano Tè e del Teatro dei Venti, permangono i dubbi e gli interrogativi che, scavalcando i secoli, si ripresentano puntuali anche nei nostri giorni e, forse, in tutti i consessi politici della Terra. Laddove esistono gli uomini c’è ambizione e lotta per il potere. E un Bruto che rivela le sua fragilità, permettendo al calcolatore Cassio di inserirsi dentro e trascinarlo dalla sua parte. Bruto preda di sentimenti contrastanti. Scisso come tanti eroi tragici di Shakespeare. L’uomo che difende i valori del passato e quelli dell’amicizia profonda per Cesare. Quelli che per il Bardo in fondo altro non sono che “The mixed motives of human nature” . E preannunciano l’arrivo delle grandi tragedie. Iniziando da “Amleto”.

Giulio Cesare riceve dalla moglie Calpurnia l’esortazione a non andare al Senato (Foto Chiara Ferrin)
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