Teatro
Il Piccolo riscopre Middleton, ma la regia di Donnellan non convince
Vendetta, tremenda vendetta alla corte dei duchi italiani e al Piccolo Teatro, nel segno del linguaggio feroce di un elisabettiano poco più giovane di Shakespeare ignoto ai più. Thomas Middleton ha avuto il suo riscatto nel tempio della prosa italiana con la sua Tragedia del vendicatore, prima produzione italiana del titolatissimo Declan Donnellan, leone d’oro alla carriera nel 2016. Una tragedia che fino a pochi anni fa veniva attribuita a Cyril Tourneur, anche nella versione di Luca Ronconi, messa in scena nel 1970 con la sua solita capacità profetica – cast di sole donne, tra cui la Melato –, e che allo Strehler il regista irlandese ha riletto in chiave contemporanea, in senso sia etico sia estetico.
Per quanto interessanti e da riscoprire, è innegabile che i grovigli di violenza e sangue di Middleton non abbiano la stessa grandezza dei drammi storici di Shakespeare: basta leggere in locandina i nomi parlanti dei personaggi – Vindice, Castizia, Lussurioso, Spurio eccetera – per farsi l’idea che non sono tanto le sfumature dei conflitti a interessare il drammaturgo, ma che il suo obiettivo sia piuttosto l’esibizione diretta dei quotidiani orrori di corte. Quindi non un testo sottile, ma perché non deve esserlo: la cifra di Middleton va cercata nello choc improvviso, nella satira irriverente, nella banalità del male e della violenza, insomma in una condanna spietata della natura umana che non lascia speranza né margini per una riflessione. Ecco spiegato il motivo delle censure che subì per tutta la vita, per le continue provocazioni delle sue commedie grottesche e tragedie splatter sopra le righe.
Il vendicatore in versione Donnellan è sia grottesco sia splatter, ma vive e muore in un varietà pulp che, per quanto vivace e incalzante, non è seguito con la stessa convinzione dagli attori, a seconda del momento o dell’interprete, ma forse soprattutto per un eccesso di linearità della regia. Certo c’è il sangue, lingue tagliate e palpebre strappate, ciononostante lo spettacolo è fin troppo innocuo: non è mai veramente sferzante, nemmeno durante la danza macabra finale, culmine di questo teatro della crudeltà che invece si risolve in un girotondo un po’ goffo di vittime e carnefici, con la musica che si abbassa perché ciascuno pronunci le sue ultime parole.
Certo non si può dire che manchino le idee o i momenti suggestivi, a partire dalle porte scorrevoli da mattatoio che chiudono la scena, lo scheletro dell’antica amante da far ballare come l’automa nel Casanova di Fellini, le telecamere che riproiettano la scena sul fondo, perché non c’è tragedia elisabettiana senza inganni o autoinganni da svelare ai personaggi, prima ancora che al pubblico (non proprio una novità, ma funziona). Tutto questo viene però costellato di battute e ammiccamenti che smorzano le tensioni e fraintendono il testo, peraltro appiattito nella versione italiana di Stefano Massini. Didascaliche proiezioni di Tiziano e Mantegna dovrebbero sostenere il gioco delle parti con l’ambiguità degli sguardi dipinti dell’Ariosto o dei Gonzaga della Camera degli Sposi e invece banalizzano l’azione, senza che la scena acquisti granché in potenziale drammatico.
Quanto alle interpretazioni, la migliore è senz’altro quella di Fausto Cabra, giustiziere dai contorni inquietanti e inquieti che nascondono le ombre della moralità: più ancora che dai carnefici bisogna guardarsi dalle vittime. Buona prova anche di Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Massimiliano Speziani e Pia Lanciotti, mentre sono apparsi più disorientati Errico Liguori, Marta Malvestiti, Christian Di Filippo e David Meden. Completano il cast Marco Brinzi, Martin IIunga Chishimba, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini e Beatrice Vecchione.
Foto © Masiar Pasquali
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