Teatro
Il nuovo Iran? Va in scena nei teatri di Teheran
Per l’Iran del teatro è una novità assoluta: stiamo parlando di un libro-catalogo, 240 pagine, fitto di indirizzi, numeri, nomi. Una bella guida, insomma, piuttosto dettagliata, utile per avere un’idea di quel che ribolle nell’affascinante vita teatrale di Teheran e di tutto il Paese. Il titolo è efficace: The first book of iranian theater, ed è un fatto notevole. Intanto perché fotografa l’articolata scena locale e formalizza su carta – in un Paese bellissimo, colto, aperto ma dalle mille, aspre contraddizioni – la volontà di ragionare in modo diffuso sulla prassi teatrale.
Edito dal Dramatic Arts Center, la struttura governativa che si occupa del teatro, il libro, in vendita a 20mila Toman, è una fucina di riferimenti.
Nell’introduzione, Medhi Shafiee, direttore generale del DAC, scrive: «Ci siamo impegnati perché crediamo che il teatro non sia solo un’arte capace di generare cultura e sviluppare la civiltà islamica iraniana ma che possa dar vita a un rinnovamento, una crescita e un cambiamento dei modelli sociali e comportamentali del nostro tempo»
Il fatto nuovo, insomma, è che l’Iran affronti di petto la questione teatrale come elemento strutturale della vita culturale e sociale. Da tempo, l’Iran ci ha abituato ai suoi capolavori cinematografici, ma anche la produzione scenica sforna talenti che hanno successo in tutta Europa: per fare solo un recente esempio, il CSS di Udine ha ospitato un omaggio al regista Amir Reza Koohestani – che apprezziamo da tempo per la sua cifra netta e indipendente.
Inutile dire, però, che in una nazione rigorosamente islamica, la questione teatrale sia di non poco conto. Tanto più che a Teheran e nei principali centri, si sta aprendo un’intrigante riflessione legata alla creazione di un nuovo, nuovissimo “teatro privato”. Come l’Unione Sovietica e gli Stati satelliti dovettero organizzarsi in fretta, dopo il 1989, per stabilire le regole della proprietà privata (direi che non tutto sia riuscito…), così in Iran, paese estremamente centralista, aprire la strada ad una privatizzazione della scena è un fatto quasi straordinario.
Se ne è discusso recentemente, in una tre giorni di convegno fittissimo e ricco di fermenti, anche polemici. Tema dell’incontro – cui erano invitati un manipolo di studiosi e operatori internazionali, tra cui chi vi scrive – era “Potenzialità del settore indipendente in teatro”, e già il fatto che lo Stato si preoccupi di parlare di indipendenza suonava intrigante, soprattutto perché il convegno è stato aperto dal Direttore degli affari artistici presso il ministero della cultura e della guida islamica, Ali Moradkhani.
Di fatto, il governo controlla a più livelli la produzione culturale, ma oggi sembra si stiano schiudendo le porte a una nuova scena. Cogliendo al balzo l’opportunità, alcuni registi e organizzatori iraniani hanno ipotizzato scenari sorprendenti: addirittura c’era chi prendeva a modello Broadway, con i suoi musical e con il suo merchandising; o chi cercava un modello menageriale possibile per questi nuovi teatri che potrebbero essere anche fonte di economie oltre che di rinnovata creatività.
Ma c’è anche chi ha coniugato “privato” con “indipendente” – e il titolo del convegno lo legittimava – anche se i due termini, e l’Italia ne è una prova, spesso non coincidono. Ci sono stati maestri della scena iraniana, come Mjid Jafari, Ghotboddin Sadeghi, Atila Pesyani o Hossein Parsanei, che hanno rivendicato con forza condizioni di libertà creativa per gli artisti. Ma, ha chiosato con eleganza disarmante la straordinaria Laleh Taghian – donna mite e dolcissima, ma autorevolissima e temuta critica teatrale – che fino a quando in Iran ci saranno censura e “supervision” non potrà esistere un teatro indipendente. Spinosa questione quella censoria: certo, in Italia vigeva fino a pochi decenni fa, e oggi torna in forme diverse anche se non evidenti. Però in Iran la censura è seria ed è stata oggetto di discussione anche durante il convegno. A fronte dei rappresentati del governo, che ricordavano e spiegavano le norme islamiche soprattutto a noi stranieri, c’è stato anche chi ha già avvertito il pericolo che può derivare dalla privatizzazione totale o parziale del teatro: il capitalismo o le regole del botteghino spesso inducono la creatività a forme di controllo e (auto)censura altrettanto odiose.
Come evidenziato dal tesissimo intervento di Ghazaleh Rashidi, attrice, regista e studiosa di teatro, che ha sciorinato i dati di un’attenta ricerca sul capitale intellettuale nei componenti il giovane teatro iraniano. Sono tanti i giovani che vogliono fare teatro (o cinema) in Iran: molti di questi si laureano in una delle 18 facoltà del Paese dove si studia teoria e tecnica, per poi arrivare in occidente (Europa o Stati Uniti) a specializzarsi. E molti scelgono Roma o l’Italia, attratti ancora da quella che era la grande tradizione teatrale o cinematografica del nostro ormai decotto belpaese. Al convegno erano presenti molti giovani studenti: con quell’aspetto che li rende facilmente riconoscibili in tutte le Università – i capelli lunghi, le barbe, i vestiti sdruciti – gli intervenuti hanno rivendicato spazi e possibilità anche per il teatro universitario. Ma subito sono stati rintuzzati dal notissimo attore e regista Reza Kinian: «Siete studenti, pensate a studiare. Quando andrete in scena, tra quattro anni, ne riparleremo!».
Insomma, discussione vivacissima, posizioni anche estreme, sospese tra difesa della tradizione e l’innovazione, tra aperture e chiusure, tra speranze e rivendicazioni. Eppure nel mondo della scena iraniana, forse come mai prima, si respira un’aria di vivacità, di voglia di ricerca, addirittura di cambiamento possibile. E chissà, se il teatro è – come è sempre stato – specchio del mondo…
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