Teatro
Il Misantropo e gli altri: viva gli spettacoli che si occupano solo del pubblico
Ripenso agli spettacoli visti a fine anno, in quella frenesia da bilanci a consuntivo (i migliori, la top five, i preferiti, quelli da buttare: in un gioco della torre che serve sempre poco) e saturazione da eccesso di visione. Ma questi lavori, che addirittura debuttano a dicembre, non si preoccupano né di arrivar “tardi” o tanto meno “troppo presto”, rispetto ai tempi dei premi o delle classifiche, e pensano serenamente solo al pubblico. Vorrei dar conto, allora, di alcuni spettacoli dicembrini che ho visto in rapida successione (e mi ci vorranno almeno un paio di post).
Inizio dunque da una proposta importante, stralunata, forse non del tutto riuscita e magari, proprio per questo, decisamente intrigante. Un lavoro imperfetto (c’è chi è uscito contrariato) che a me ha dato da pensare e non poco, per i diversi livelli di lettura che autorizza e anzi incita ad affrontare.
Sto parlando de “Il Misantropo”, messo in scena e interpretato da Valter Malosti con il notevole contributo drammaturgico del bravo Fabrizio Sinisi, per la Fondazione Teatro Piemonte Europa.
Provo, quindi, a enucleare alcuni dei temi sui quali ragionare.
Questo Misantropo ha dalla sua proprio una aguzza connotazione di riscrittura. Che non è solo adeguamento di linguaggio ma slittamento concettuale. Di fatto, per una serie di incastri – paradossalmente non tutti inseguiti alla stessa maniera – in questo lavoro cambia il punto di vista, muta la prospettiva, si ribalta, più o meno dalla metà in poi, la natura stessa del protagonista. Malosti appronta un circo umano sospeso in una sorta di evocativo vuoto, nelle eleganti scene di Gregorio Zurla. Alceste, il misantropo molieriano, è certo al centro, protagonista come da titolo, ma lentamente la sua massiccia caratura si sfilaccia per lasciare il posto alle figure femminili. Qui si coglie, almeno per me, un nodo drammaturgico innovativo: al regista e al drammaturgo sembra non interessa la misantropia “tradizionalmente” intesa della commedia. Si slitta al sistematico confronto con un femminile che esce vincente, protagonista appunto.
Celimene, una Anna Della Rosa stupendamente animale, potentissima e libera, è una donna forte, disinibita, che vive serenamente la propria vivace sensualità. Accanto o di fronte, ecco Sara Bertelà, sempre divina nel tratteggiare i propri personaggi con ironia e calda passionalità, tanto da far della sua Arsinoe una donna impegnata, protomilitante, a suo modo una inattesa evocazione di Donna Elvira. E non è un caso che Don Giovanni sia più volte chiamato in causa, apertamente citato, in questa lotta contro l’ipocrisia che è tema caldo del Misantropo. Eppure, mentre l’Eliante di Roberta Lanave sfoggia una partitura canora per sondare terreni scomodi e derive sentimentali dark, non c’è scampo per Alceste. Malosti ne fa una sorta di confuso “buffone”: con quel suo modo trattenuto di dare quasi svogliatamente le battute, dette girandosi, fuggendo, controvoglia, con rassegnata disperazione.
E l’allestimento diventa una frenesia grottesca, amara, che gira freneticamente su se stessa, e tocca finalmente il suo apice nel confronto tra le due prime donne (e chissà, magari un po’ più di solidarietà femminile, nelle diverse se non opposte prospettive avrebbe dato ulteriori spunti).
Certe esasperate chiavi d’accesso fanno in definitiva di questo Misantropo il primo allestimento post-Cesare Garboli. Si sa, il grandissimo critico e studioso ha dato la propria impronta alla traduzione e alla lettura critica di Molière in Italia. Altissima lettura,la sua.
Malosti, sapendolo bene, va altrove. Sbaglia strada? No, di certo tenta percorsi, da approfondire, per un Alceste sottratto alla misantropia, alla seduzione femminea, al dovere di dire sempre la verità. Semmai qui ci troviamo di fronte un uomo magari scontento, probabilmente confuso, sicuramente consapevole di rappresentare qualcosa per gli altri. Ecco, gli altri: una corte, un mondo che oggi, vien da dire, sarebbe al governo. C’è un piano di lettura politico? Il poeta Oronte (bene Edoardo Ribatto) oggi sarebbe sostenuto e protetto dal partito. E ancora i due marchesi, la coppia comica nevrastenica e sopra le righe, cui fa da contraltare l’attento Filinto di Paolo Giangrasso, senza dubbio sarebbero al governo (energici, forse un filino troppo, Matteo Baiardi e Marcello Spinetta),. Che gente è? Dove si muove questo Alceste? Perchè tutti lo cercano? Non è forse la grande crisi della sinistra, l’assoluta mancanza di contatto con la realtà, con uno straccio di verità? Il misantropo sa, lo capisce, che quel mondo lì non ha speranza. Se ne chiama fuori. Restano, semmai, le donne, potenti e intelligenti, spiazzanti e determinate. Nel finale dello spettacolo, Alceste Don Giovanni, torna a farci i conti. La verità, semmai, è da quelle Resta da dire della “estetica” generale dello spettacolo. Il lavoro, nella mescolanza di generi e rimandi, paga tributo all’estetica tedesca anni Sessanta e Settanta che tanto ha influenzato giganti della regia come, per dirne alcuni, Castorf, Marthaler, Ostermeier (e prima Schwab, Achternbusch e altri): quanto hanno influenzato il teatro, anche italiano? Nei costumi di Grazia Materia c’è però anche un omaggio a quel mondo scellerato delle balere, kitch nostrano che diventa pop, un sovrapporsi di epoche e tessuti che dice, alla fine, una banale verità. Cambiano i tempi, i guai restano. E Molière, bonta sua, ci aveva avvisato.
(fotografie di Tommaso La Pera)
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