Teatro
Il mio Edipo totalmente umano: intervista a Robert Carsen
SIRACUSA. Da molti anni a Siracusa, sulla scena del Teatro Greco, non si vedeva uno spettacolo come l’Edipo Re di Sofocle diretto in questa LVII stagione Inda dal regista canadese Robert Carsen: uno spettacolo in cui il testo antico sovrasta e domina totalmente lo spettacolo. Attenzione: nessuna ingenuità, nessun tentativo di falsa filologia, nessuna resa a un’ammirazione acritica, (quindi irrazionale, metafisica e sostanzialmente reazionaria), alla potenza del testo classico. Nulla di tutto ciò. Solo un raffinatissimo lavoro di traduzione e di dialogo continuo con quel testo senza interrompere la concentrazione, senza smettere – nemmeno per lo spazio temporale di una sillaba, di un gesto o di uno sguardo – d’esser consapevoli della dimensione di contemporaneità nella quale sono immersi tutti i protagonisti di questo nobilissimo rito teatrale: dal regista agli attori, dalle maestranze ai tecnici d’ogni tipo, dagli organizzatori al pubblico sempre numerosissimo. L’esito è un evento teatrale magnifico, terso nella pulizia del segno registico, straordinariamente colto senza nemmeno l’orpello di mezza citazione, uno spettacolo che ha fatto innamorare il pubblico e sta ricevendo consensi importantissimi da tutta la critica. Abbiamo incontrato il regista.
Perché ha scelto di lavorare su questo testo di Sofocle?
«Ho scelto questa tragedia perché secondo me essa parla al pubblico di oggi esattamente con la stessa efficacia di quando è stata concepita nel 429. Questa tragedia, per essere compresa dal pubblico contemporaneo, non ha bisogno di essere tradotta in termini drammatici. Questo dramma è unico nel suo essere in rapporto diretto con l’umano. Gli dei sono presenti certo, ma tutta la vicenda si svolge dentro i limiti dell’umano. E, allo stesso modo, è umanissima e potente la catarsi che ne deriva, la catarsi determinata dalla acquisizione di consapevolezza della tensione costante tra la vita, come noi possiamo desiderarla e viverla secondo il nostro libero arbitrio, e quello che in realtà essa è nel suo mistero più profondo. Altro tema fondamentale è quello dell’identità: Edipo non sa chi è veramente, non sa veramente fino alla fine del dramma e si sforza di capirlo e di saperlo, come facciamo noi del resto, fino alla fine della nostra vita. Tutta la vita è una ricerca per scoprire chi siamo».
Perché ha affermato che “la modernità dell’opera risiede nella sua onestà”?
«Può sembrare paradossale, ma io trovo in questo testo una assoluta mancanza di teatralità e una profonda e diretta connessione con l’umano. È ciò che cerco di rendere nel mio spettacolo. Tutto questo è collocato in una serie infinita di domande, che danno il segno della autenticità della ricerca».
Mentre è abbastanza semplice comprendere l’universalità del personaggio di Edipo, le chiedo quale significato si può assegnare al personaggio di Giocasta
«In Giocasta vediamo contemporaneamente l’amore di una madre e quello di una moglie. Un amore naturalissimo, totale e, contemporaneamente, del tutto mostruoso. Giocasta ama in modo doppio Edipo, è felice di un amore doppio, di un amore che possiede una totalità sconosciuta e spaventosa».
E quale significato si può assegnare a Tiresia?
«Tiresia non è un profeta, è piuttosto quello che in inglese possiamo definire “seer”, un veggente. Vede quello che accadrà ma non può interferire con esso. E poi c’è un altro aspetto che mi ha colpito molto di questo personaggio: la sua dimensione di cittadino insieme con gli altri cittadini, di tebano insieme con gli altri tebani. Egli è preoccupato, sollecito per le sorti della città, partecipa con gli altri alla ricerca de colpevole. C’è qualcosa che io trovo estremamente moderno nella costruzione del dramma: Tiresia arriva una quindicina di minuti dopo l’inizio e ci annuncia ciò che succederà, tutto ciò che succederà. Il coro (cioè l’insieme dei Tebani, nella loro numerosa concretezza di cittadini) però non gli crede e nemmeno il pubblico è sostanzialmente nella posizione di credergli. Tiresia non è contento di dire le cose che dice ed è costretto da Edipo che, a sua volta, sente il dovere di trovare la verità e di capire chi è il reo come se si trattasse dell’assassinio di suo padre… Dice la verità senza sapere di dirla. Nessuno vorrebbe che Edipo fosse l’assassinio del padre e colui che ha sposato la madre, nessuno, nemmeno noi vorremmo che Edipo fosse il reo. Ma il destino, i fati, la vita sono immodificabili».
Che cosa significa per lei la cecità di Edipo?
«Alla fine della vicenda, quando Edipo conosce la verità e capisce che cosa è accaduto nella sua vita, nasce in lui una sorta di nobile accettazione del mistero della vita. È una sorta di accettazione religiosa della realtà, un’accettazione totale, serena e pacificata del suo essere quel che è. Il gesto terrificante del suo stesso accecarsi vuol forse accentuare la collocazione interiore della libertà raggiunta col raggiungimento della verità. Una catharsis, una liberazione interiore e spirituale che è terribilmente commovente. Diversamente sarebbe un horror film che non credo possa minimamente concepirsi in questo dramma».
Lei ha diretto molte opere liriche: a quale distanza si deve porre la realizzazione di una tragedia greca, differenziandola da una parte dall’opera lirica e, dall’altra, dalla prosa teatrale? Che tipo di teatro è quello che nasce oggi dai testi della drammaturgia classica?
«Io non mi pongo questo problema o, quanto meno, non me lo pongo in termini astratti: mi confronto con un determinato testo ed è quel testo stesso che mi dice quale sia la modalità migliore per realizzare lo spettacolo. Cosa vuole quel testo, cosa mi dice: è questo che determina le mie scelte. E poi, evidentemente, il luogo: il teatro greco di Siracusa vede ogni sera almeno la presenza di cinquemila spettatori e incredibilmente questi si avvertono più che in qualsiasi teatro moderno perché non c’è sipario, non c’è separazione alcuna con la scena e con gli attori. Siamo alla luce del giorno e siamo tutti insieme. Tutti insieme. Cosa ho trovato in questo testo e su che cosa ho puntato per far funzionare lo spettacolo? una certa mancanza di teatralità che si espande in ogni segmento di esso: dopo di che il mio compito è quello di rendere intellegibile al massimo una storia che preesiste al mio spettacolo. Si veda ad esempio la musica e il paesaggio sonoro: Cosmin Nicolae ha fatto un ottimo lavoro e ne sono molto contento, ma non c’è nessun motivo drammaturgico di espandere l’uso della musica e noi la utilizziamo solo in alcune parti, per così dire rituali, dello spettacolo o per sottolineare la persistenza memoriale degli oracoli di Apollo. La stessa cosa potrebbe dirsi dei costumi: la loro mediterraneità è solo accennata nel coro e non volevo che in nessun modo catturasse l’attenzione del pubblico più di quanto non lo faccia la drammaturgia stessa».
Edipo Re è forse la tragedia in assoluto più studiata e più rappresentata del teatro occidentale: nel concepire il suo spettacolo si è ispirato a qualche lettura in particolare?
«Evidentemente è così e ne sono del tutto consapevole. Una enorme tradizione di studi, di riflessioni di presenze. Al di là della traduzione di Francesco Morosi, ho letto tantissime traduzioni in inglese soprattutto, e moltissimi studi e interpretazioni, ovviamente a partire da Freud. Ma ho capito abbastanza rapidamente che con un testo di tal fatta è necessario lavorare nella più totale semplicità d’approccio e ricercare una messinscena che lo metta il più possibile in risalto».
Edipo Re, Regia di Robert Carsen (Siracusa Teatro greco dal 18 maggio al 3 luglio)
https://www.indafondazione.org/edipo-re-sofocle-2022/
Crediti fotografici: Maria Pia Ballarino. Nelle foto Robert Carsen Giuseppe Sartori (Edipo), Maddalena Crippa (Giocasta).
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