Teatro
Il matriarcato ancestrale nel Macbeth secondo Emma Dante
A parte qualche croce e fico d’India di troppo, il Macbeth “di” Emma Dante presentato quest’anno al Macerata Opera Festival non è solo bellissimo, ma è un Macbeth ideale. I momenti migliori – manco a dirlo – sono le scene delle streghe, con quel matriarcato antico e inesorabile scovato negli “accenti arcani” del materiale verdian-scespiriano, come del resto già in altri suoi spettacoli (anzi forse quasi in tutti, solo che qui funziona davvero). In Macbeth esiste una dimensione ancestrale, che tutti riconoscono ma che quasi nessuno sa mettere a fuoco – ultimamente ci è riuscito Alessandro Serra nel suo Macbettu sardo. Invece le idee della Dante aderiscono agli spasmi di un testo che ha poco di psicologico e molto di antropologico.
Certo, c’è la solitudine del protagonista, il suo conflitto tra il bene (pochissimo) e il male (tantissimo), la sua libertà stritolata dal destino, la vita che diventa “il racconto di un povero idiota” eccetera eccetera. Ma per cavarsela fra tutti questi universali non basta riferirsi a un generico inferno della coscienza. Di fronte agli archetipi, la Dante non fa e non si fa sconti: li affronta tutti. E non solo con il suo solito armamentario di pupi e sicilianità, ma sforzandosi di trasformare le streghe in vere e proprie divinità ctonie che regolano il mondo interiore dei personaggi, con citazioni strehleriane e ronconiane più o meno consce: dai feti partoriti in proscenio, ai teli insanguinati che sembrano usciti dalle viscere dello Sferisterio – splendide le coreografie di Manuela Lo Sicco. Così Macbeth diventa un documento alla Bachofen, testimonianza di un rovesciamento di potere: dalle donne agli uomini, dalla legge delle madri al gioco dei potenti.
Inoltre l’accorta distribuzione degli elementi scenici di Carmine Maringola (cancellate e troni di spade e lettini da ospedale, tutti mobili), risolve il solito problema del larghissimo palcoscenico di Macerata, con trovate brillanti come lo strascico che fa da tavola per il banchetto – l’analogo nella Carmen scaligera, con il letto della madre di Don José, non era altrettanto felice.
Quanto alla direzione di Francesco Ivan Ciampa, non ha solo energia e volume “da arena”, ma trova atmosfere plumbee e inquietanti “da sala”. E poi sa infuocare e obnubilare il pubblico, seguendo le logiche drammatiche verdiane fin dentro ai sonnambulismi della partitura. Ma niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza il cast, eccellente, riunito per l’occasione. A partire da Roberto Frontali, il cui canto un po’ faticoso affascina per la musicalità delle soluzioni e l’interpretazione dolorosa, complessa e a tratti struggente. La sua sanguinaria consorte è Saioa Hernández, che ha un bel timbro e fraseggio, e solo qualche incertezza nelle intenzioni. Quanto ad Alex Esposito, è già un Banco di lusso pur avendolo appena debuttato, come di valore è la prova di Giovanni Sala per Macduff. Ottimo il contributo dei comprimari Fiammetta Tofoni, Rodrigo Ortiz e Giacomo Medici, e del coro diretto da Martino Faggiani.
Foto di copertina di Tabocchini.
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