Teatro

Il Macbettu barbaricino a colpi di coltello

3 Ottobre 2017

C’è un bel libro, scritto con passione da Mario Faticoni, «padre nobile del teatro in Sardegna» (la definizione è del critico Walter Porcedda) che racconta del difficile rapporto tra la Sardegna e il suo teatro. Il titolo non è casuale: Un delitto fatto bene, da Carlo Delfino editore, e impone subito una prospettiva non scevra da violenza.

Di delitto, infatti, si parla: ed è un delitto aspro, soprattutto di memoria. Dimenticare, in Sardegna, è come commettere un omicidio: abbandonare chi il teatro l’ha fatto, scordare o rimuovere il passato sono veri e propri crimini. Perché l’Isola continua ferocemente a fare i conti con la propria identità, con la propria lingua, con la propria storia, appunto. E il teatro ne è strumento per eccellenza.

Ripensavo a tutto questo assistendo al Macbettu, versione sarda del classico shakespeariano, con la regia adamantina di Alessandro Serra per il Teatro Stabile di Sardegna, in coproduzione con la compagnia Teatropersona.

Foto di Alessandro Serra

Al teatro Vascello di Roma, stra-esaurito di un pubblico entusiasta, nell’ambito del Festival Teatri di Vetro, è arrivato dunque l’allestimento che ha già fatto molto parlare e scrivere chi l’ha visto (e anche chi non l’ha visto).

Allora la considerazione iniziale che si può fare, è che questo Macbeth sugella un doppio coronamento: intanto della vivace direzione di Massimo Mancini a Sardegnateatro, poi come operazione che fa i conti, senza sconti, proprio con la storia e l’immaginario del teatro sardo.

La matassa identitaria, con tutte le sue contraddizioni, è anche una questione linguistica. Si potrebbe addirittura creare un ponte con quanto accade, in questi giorni, a Barcellona e in Catalogna, dove il principio linguistico è la base per una rivendicazione storica di indipendenza.

La lingua – anzi le lingue – di Sardegna sono una matrice concreta, terrigna e antica, fulcro identitario e culturale.

Così, la traduzione in Limba sarda di Giovanni Carroni del testo shakespeariano è la pietra su cui si basa la versione scenica diretta da Serra: lo spettacolo – almeno per me – è soprattutto un’entità linguistica, dunque poetica.

Foto di Alessandro Serra

Sembra quasi che l’operazione Macbettu, anche per certi aspetti nell’esito visivo, sia non lontana da quanto fece, negli anni novanta, Eimuntas Nekrosius con il lituano: altra lingua dalle sonorità “barbariche” e poetiche, evocative e arcaiche, che ben si prestava (e si presta) a rendere la selvaggia violenza della tragedia scozzese scritta da Shakespeare.

L’assioma potrebbe suonare scontato, ma così non è: vi è semmai una profonda tensione nel trattare la lingua sarda in chiave poetica, alta e altra, nel rivendicarne la possibilità narrativa al di là della matrice “dialettale” o “vernacolare”. Insomma, il sardo può dire il tragico, può evocare la mistica violenta di Macbeth e della sua Lady.

Il rischio, dietro l’angolo, è la “cristallizzazione lessicale”, ossia il connotare tutto ciò che è sardo esclusivamente come arcaico e barbaricino, nel formalizzare insomma una visione in stereotipo: come avvenne, che so, per il Realismo magico sudamericano, molta letteratura contemporanea sarda è aggrappata ad un immaginario mitico, che fa dell’epopea “tribale” il suo leitmotiv, impastato sempre e solo di luoghi comuni e vendette.

Ma non è questo il rischio del Macbettu, che è anzi opera nitida, di limpida eleganza, e di spirito assai contemporaneo. Merito certo della regia tagliente di Alessandro Serra, che sta vivendo un momento di felice creatività (ne parlavamo qui).

La regia del Macbettu, infatti, rispecchia la sua prospettiva: grande nitore, cura per il dettaglio, movimenti scenici (di Chiara Michelini) quasi coreografati. Tutto è freddo, distante, formale.

Serra sceglie un cast di soli uomini, asseconda la violenza primigenia del testo evocando il “codice barbaricino”, che delicato non è mai stato e che fa giustizia a colpi di leppa o resolza. Utilizza sapientemente elementi materici come la pietra, il ferro, il sughero, la terra sabbiosa, o il pane carasau che si muterà in un tappeto di briciole distrutte e calpestate. I suoi protagonisti indossano il velluto sardo, e le streghe (una delle belle invenzioni del lavoro) sono delle figure sospese tra il comico e il grottesco, donne barbute e nerovestite che si potrebbero ancora incontrare in qualche paesino del Supramonte.

Foto di Alessandro Serra

Ma tutto torna: anche quando la foresta di Birnam deve muoversi, vediamo avanzare delle figure mascherate, evocative dei carnevali di montagna, come quelli di Mamoiada, Orotelli, Lula o di Ottana, dove le figure demoniache e carnascialesce scaturiscono direttamente dalla natura selvaggia e dalla civiltà contadina.

Nel feroce tessuto sonoro di Pinuccio Sciola, tutto è avvolto da una cupezza del non detto, del buio squarciato da freddi tagli di luce: l’incombenza della morte, la totale claustrofobia della storia diventa smaccata nel delirante monologo finale di Macbeth, seduto su un microtrono di fronte a un piccolo “nuraghe”, costruito pietra su pietra, delitto su delitto.

Leonardo Capuano, foto di Alessandro Serra

Va detto del gruppo di attori: bravissimi tutti, a partire dal protagonista, Leonardo Capuano. Attore di straordinaria incisività, che apprezziamo praticamente dai suoi esordi: ricordo ancora un suo monologo bellissimo, tanto tempo fa, Sa vida mia perdia po nudda, un attraversamento in sardo de I Karamazov. Capuano dà al suo Macbeth una ferocia trattenuta, una follia stanca, amara. Con lui sono da citare tutti gli attori in scena: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino. Da ciascuno, un generoso contributo di intensità e complice ironia.

Ci sono delle lentezze, dei momenti difficili (certo, il sardo non è così fruibile) ma valeva la pena vedere questo spettacolo, vale la pena confrontarsi con questa “pastorale sarda”, non solo per chi, come me, porta con orgoglio le stimmate dell’origine nel cognome, ma soprattutto per il teatro, italiano e non solo: in quell’isola in mezzo al mediterraneo il “delitto fatto bene” non ha ancora ucciso la memoria.

 

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