Teatro
Il lato oscuro delle Baccanti
Scriveva Jean Luc Nancy, in un libro di qualche anno fa, che siamo “dopo la tragedia”. Ossia che «tutta la nostra storia ha pensato e si è pensata “dopo la tragedia” o per prendere congedo da quella “tragedia” o per rimpiangerla e cercare di ritrovarne la verità». In qualche modo, Le Baccanti, messo in scena da Andrea De Rosa con il Teatro Mercadante di Napoli, arrivano dopo la tragedia. Sono uno slittamento nel cupo dionisiaco del presente, un viaggio nel tempo senza tempo che mette in mostra un Dioniso d’oggi, dio cupo dell’ebrezza, assertore violento di una frenesia di libertà che schianta in isterie aporetiche, in derive ove perdersi, vacillare, confondersi, stordirsi, divorare sé e l’altro.
In queste Baccanti il dio è finalmente donna, è ambigua forma androgina che evoca rockstar del passato – potrebbe essere Patti Smith o Nico – catalizzatore affascinante e respingente, al centro di un mondo che si sfalda e si ritrova nel suo culto. Questo dio giovane e bellissima, capricciosa e vendicativa, rinnega a lungo ogni rimando al perenne contraltare apollineo: lo sappiamo, non vi è Dioniso senza Apollo. Ma la forma astratta e pura – forse pacificata – arriverà solo più tardi, “dopo la tragedia” appunto, quando però tutti i giochi saranno fatti, il sacrificio compiuto, la perdizione avvenuta. Il dopo non sarà mai più come il prima.
Nella bella scena astratta e incisiva di Simone Mannino, con un gioco di luci estenuante e potente, assolutamente magistrale, di Pasquale Mari – che a lungo concede sapientemente una visione parziale, velata, al pubblico – la storia di Penteo, Tiresia, Agave, Cadmo e delle baccanti si dipana austera davanti al dio donna. La dinamica, soprattutto sonora (il tessuto ritmico è firmato da G.U.P. Alcaro autore anche delle composizioni originali con David Tomat) è quella del rave, della festa techno incessante, del concerto che travolge tutto e tutti.
Dioniso è là, al microfono, star intoccabile, frontman (woman) pronta a immolarsi: i capelli, la posa del corpo, il tono della voce, tutto fa avvertire una forza incontenibile e fa presagire il disegno registico di De Rosa. Siamo qui, oggi: Euripide può vivere portando il tragico nel contemporaneo.
La scelta di coniugare ebrezza dionisiaca e musica hardcore certo non è nuova, ma nella prospettiva di De Rosa risulta coerente e non manierata. Il regista ha una predilezione per il modo dell’oscuro, anche inconscio, e già in passato ha investigato “the dark side of the moon” in varie opere, facendo ricorso alle possibilità offerte dalla tecnologia (intesa come luci e suoni) per svelare gli inferi dell’animo umano. Ma, in questo suo incedere, non cerca il pathos o la retorica facile, anzi spesso raggela. Allora, proprio dall’operazione di distanza e prossimità, di lucida freddezza, quasi di svuotamento, scaturisce il pensiero sulle tragedie oltre la forma tragica, ossia sul tempo presente. Su quanto e come il fanatismo per un dio spinga alla violenza, all’omicidio, all’obnubilazione della coscienza. De Rosa non prende una posizione morale, non condanna il “rave” in quanto tale – sarebbe semplicistico e banale – ma mostra quell’umanità travolta senza scampo.
Penteo (un bravo Lino Musella) a lungo di spalle alla platea, seduto su un trono-poltrona, guarda: è lui lo spettatore eccellente, è lui il critico che alla fine sarà coinvolto nello spettacolo. Tiresia (Marco Cavicchioli) e Cadmo (ottimo Ruggero Dondi), en travesti, si lasciano subito andare alle suggestioni della nuova religione, danzano, partecipano, cercano di convincere il re tebano. Nel confronto scontro con il giovane dio, Penteo si irretisce, si lascia sedure: vuole vedere Agave. È qui il nodo? Una questione edipica? Certo, ma non solo. È la frenesia per il travestimento, per la perdizione, per il mistero, per l’oscurità del sacro che smuove il reticente Penteo.
Non ci sono eroi, in questa tragedia, e anzi il fato dipende dal capriccio di un dio e dall’hybris dell’uomo. L’epilogo è noto. Resteranno le allucinanti parole innocenti di Agave (trascinante, davvero notevole Cristina Donadio nel difficile ruolo), e quando poi, nel finale, in un silenzio assordante, definitivo, il dio appollaiato su quello scranno che era il trono, scompare nel buio, capiamo che l’inquietudine non ci lascerà più.
A contribuire al superamento del senso di individualità della storia a favore della coralità, necessaria sin dal titolo, che ha valore drammaturgico e scenico, è lo sdoppiamento del corifeo, affidato alle intense Irene Petris e Carlotta Viscovo, e del messaggero, ruolo in cui appaiono Matthieu Pastore e Emilio Vacca. A completare il cast, la freschezza scenica delle allieve della scuola del Teatro Stabile di Napoli, Francesca Fedeli, Marialuisa Bosso e Serena Mazzei.
Resta da dire di lei, del dio-donna. Federica Rosellini, che non conoscevo, mi ha colpito: non strafa, anzi tiene una cifra contenuta, trattenuta, ma esplosiva. È cupa e roca, poi angelica e deliziosa, infine inquietante e spaventosa nella sua folle fissità. Dioniso, il dio cui siamo devoti, ha molti volti. Scomparendo nel buio da cui era apparso continua a osservarci. Come scriveva Marcel Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore: «la carne si fa specchio, dandoci l’illusione di lasciarci, più che nelle altre parti del corpo, accostare all’anima”. Nel volto enigmatico del Dio vediamo noi stessi che guardiamo: è il teatro, è la sua essenza, è il suo essere dopo il tragico.
Le Baccanti è ancora oggi a Napoli, poi in tournée.
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