Teatro

Il grande sonno di Roma

2 Luglio 2015

Il grande sonno: c’è un clima d’abbandono svogliato, di incuria, di degrado ormai non solo tollerato, ma anche accettato.

A Roma le cose vanno male, inutile negarlo o girarci intorno. Mafia capitale è solo un tassello, una conseguenza oltre che una causa.

E la Roma culturale, attraverso i suoi teatri, rispecchia fedelmente lo stato delle cose. L’aria è da sbadiglio contagioso, quella di una cittadina di provincia dissestata. Anche Anna Bandettini, sul suo blog di Repubblica, ne scrive oggi.

Ora che arriva il caldo, a far finta che tutto vada bene, prolificano i “festivalini”: il lungotevere, alcune piazze, si riempiono di chioschetti e di mercatini, di tendine tutte uguali che propinano spesso paccottiglie pseudoartigianali, birrette (anch’esse artigianali) e intrattenimento.

Ecco qua l’estate romana: pizza al taglio e apertivi ovunque, con un’aria da sagra di paese che sancisce la devastazione culturale, civile, qualunquista, di una città del mondo.

I turisti girano accaldati: non ci sono film in lingua originale, non ci sono spettacoli internazionali, non ci sono mostre importanti. E ci dobbiamo rassegnare alle video proiezioni di Piero Angela ai Fori: son-et-lumière che pare di stare a Gardaland.

Vero: i titoli del cartellone estivo del Teatro dell’Opera a Caracalla dovrebbero tappezzare qualcosa, i “grandi” concerti (tutti o quasi star di secondo rango, pochi i nomi veramente d’eccellenza) potrebbero intrattenere romani e forestieri. L’Auditorium è un grande showroom di proposte le più varie.

Ma basta? Tutto qui?

Alla fine non resta che la grattachecca o, per i più animosi, l’eterno piatto di pajata: quella che dovrebbe essere una capitale europea, langue nella noia e nel posticcio.

In tanti, troppi, ricordano Renato Nicolini, il mitico assessore dell’altrettanto mitica città dell’effimero: lui aveva creato l’estate romana, e si avverte ancora – con crescente nostalgia – l’eco di quelle follie. Qualcosa non va, se si guarda con rimpianto agli anni di piombo.

Si avverte, diffusa, la mancanza di un “progetto”, uno qualsiasi: un’idea di città, di cultura, di teatro. Una proposta di futuro, qualcosa che guardi ai prossimi tre anni almeno. Che teatro lasceremo ai nostri figli? Che città vedranno tra dieci anni?

La metropolitana che doveva aprire è oggetto di diatribe; i mezzi pubblici faticano, le strade sono sporche, i romani sono sempre più isterici. Quando, ormai tanti anni fa, venne per la prima volta Rodrigo Garcia con un suo spettacolo (per il Festival Romaeuropa, se non sbaglio) gli attori in scena continuavano a dire: «che triste, Roma…». Avevano ragione. Roma dimessa, Roma dismessa: almeno per la cultura e il teatro, è senza investimenti, e dunque senza prospettive.

Un paio di generazioni di artisti – teatranti, cineasti, artisti visivi – “stanno”, semplicemente stanno: in attesa che succeda qualcosa. Non li ascolta più nessuno, e loro si sono stufati di gridare.

Oggi tutto è al “bando”: ma, ad esempio, il bando per l’estate è uscito nella tarda primavera, rendendo pressoché impossibile ogni adeguata programmazione culturale (che, si sa, necessita di tempi e certezze: altrove in Europa si programma con tre anni di anticipo, a meno di non spostare l’estate all’autunno).

E a luglio uscirà – pare – il bando dei cosiddetti “teatri di cintura”, ovvero  quelle strutture che agiscono da qualche anno, non senza difficoltà, in zone decentrate come Tor Bella Monaca o Quarticciolo o centrali, come il nuovissimo – appena restaurato – teatro Scuderie di Villino Corsini. Ne scriveva qualche giorni fa Andrea Pocosgnich su teatroecritica.net: teatri che lavoravano anche bene, cercando di radicarsi nel territorio: il 30 giugno è scaduto il mandato della “Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea”, cui erano stati affidati questi spazi in gestione: in una affollata conferenza stampa, i responsabili hanno detto che stavano per chiudere. E oggi, puntuale, il portone è rimasto chiuso. Motivo? Quel bando mai fatto per le nuove assegnazioni: e se pure dovesse arrivare a luglio, come giurano all’assessorato, comunque ci vorranno almeno sei mesi prima di riaprire le sale al pubblico.

Insomma, più che bando, sbando…

A Roma tutto passa: altri spazi spariscono. Qualcuno se ne ricorda? Era sparito tempo fa il Palladium, che oggi procede a scartamento ridottissimo; aperto a metà anche il Teatro India, ancora cantiere; mentre resta tristemente, inesorabilmente chiuso il teatro Valle, nonostante i tanti proclami di celere riapertura: qualche guizzo nel foyer, usato come saletta video, ma per il resto serrande abbassate (il sindaco Marino giura che tra un anno…).

Le iniziative che partono dal “basso”, sono sistematicamente disincentivate a colpi di sgomberi. Chiude il Rialto, potente factory culturale autogestita, dopo pochi giorni dalla riapertura; resiste a fatica l’Angelo Mai, sempre sotto assedio; e chiudono anche i cinema: come il cinema L’Aquila al Pigneto, avamposto culturale in un quartiere vivacissimo ma in ostaggio della microcriminalità, o come il cinema America Occupato, che si è “trasferito” a far proiezioni in piazza a Trastevere: lo scorso dicembre il Ministro Franceschini aveva vincolato l’edificio alla destinazione d’uso cinematografica, ma a marzo l’America è stato definitivamente sgomberato e chiuso, andando così a infittire l’elenco dei cinema abbandonati della città (sono oltre 40).

E se pure arriva – con bando internazionale – il manager spagnolo Noriega a “Musica per Roma” (qualcuno l’ha incontrato?), si dimette in blocco il CdA del PalaExpo. Altrove sarebbe una bomba, qua non ci sono stati tanti riverberi.

A metà luglio, in compenso, faranno spettacoli dentro il Colosseo (peraltro di qualità) ed è benvenuta la riapertura dell’Eliseo, gestito da Luca Barbareschi dopo un lungo contenzioso e nominato TRIC, ovvero teatro di rilevante interesse culturale, dal Ministero per i Beni e le attività culturali. Al tempo stesso, però, il Teatro di Roma – dove il direttore Antonio Calbi si è buttato in una impresa degna di Sisifo – diventato Teatro Nazionale, vede tagliare sistematicamente i fondi locali (Regione e Comune), tanto da mettere in rischio molte attività e produzioni previste.

Allargare lo sguardo alla Regione non aiuta: l’Atcl, ossia l’Associazione Teatrale Comuni del Lazio, sta facendo il possibile, portando a casa anche bei risultati, ma è di oggi, ad esempio, la chiusura del Festival di Ferento, dopo 45 anni di attività.

Sembra andare così, tutto a casaccio. Senza un disegno, senza un progetto, senza un euro. I giovani artisti (anche i meno giovani) sono sfiniti: e i teatranti, sempre più, pensano ad emigrare, come accadde alla generazione anni Novanta della Capitale che pure aveva visto emergere gruppi, registi e attori di assoluta qualità. Chi resta, è sfiancato, esasperato, oppure semplicemente “scojonato”, come dicono a Testaccio.

La sensazione che si ha, osservando un po’ da fuori, è che tutti i fermenti vengano sistematicamente messi a tacere, ammortizzati, attutiti, fino a farli sparire per consunzione. Da chi? Dalla politica? Dall’economia? Non so dare risposta.

Quasi quasi rimpiangiamo il “Valle Occupato”, almeno avevamo qualcosa per cui arrabbiarci o di cui discutere. Certo è che esiste una “generazione che ha dissipato i suoi poeti”, un folto numero di uomini e donne di talento costrette ad arrabattarsi, a girare a vuoto, a presentare progetti a gente che nemmeno trova il tempo per leggerli. Si sa: di troppi progetti muore la creatività, di troppi bandi muore il talento.

L’assessorato alla Cultura della Capitale, di fatto affidato a un “ispettore generale” come Giovanna Marinelli dopo la troppo ondivaga gestione di Flavia Barca, non si è scosso: procede per piccole burocrazie, e sembra evitare ogni dialogo, ogni confronto, ogni slancio.

Così, passano i giorni, e la città si addormenta su se stessa.

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