Teatro
Il critico, il teatro, le recensioni: quelle domande su libertà e verità
Chi segue i social, e in particolare la bolla del teatro e della danza, si sarà accorto di una iniziativa preziosa e curiosa: un “premio” teatrale piuttosto unico, voluto dall’attore Nello Mascia, in cui gli “attori premiano gli attori”. Come per tutti i premi si può essere d’accordo o meno, ma i risultati sono interessanti. Una delle “voci” è dedicata alla critica ed è risultato vincitore, con pieno merito, l’amico e collega Marcantonio Lucidi, autore non solo di aguzze recensioni, ma anche di un recente ponderoso volume “Il vascello delle meraviglie” (La Lepre edizioni) che è una ampia riflessione, a cavallo tra ricordi privati e una personalissima contro-storia teatrale, proprio sull’attività, sul mestiere di critico. Il libro, assolutamente da leggere, ricostruisce ambienti, storie, prese di posizione, ricorda spazi ormai chiusi, grandi artisti scomparsi. Ma non solo: è uno specchio in cui vedere (e vederci) noi critici all’opera.
Intanto, in un accorato post su Fb, l’ottimo critico napoletano Alessandro Toppi ha espresso tutta la sua difficoltà a raccogliere nelle categorie dei vari premi (quanti sono? Premio Ubu, Premio della Critica, Rete Critica, Le Maschere del Teatro, e via contando) le infinite suggestioni, i dettagli, i piccoli miracoli cui spesso assistiamo. Attimi fuggenti, avrebbe detto qualcuno, che non possono essere catalogati se non dopo grandi compromessi e forzature.
Sarebbe bello allora, se si tornasse a riflettere, a discutere, anche a litigare apertamente sul senso della pratica critica.
Sulla critica teatrale, infatti, ci sono sempre cose da dire e ridire, polemiche e rifiuti da parte dell’ambiente, ovvero di chi il teatro lo fa esponendosi, sera dopo sera, all’analisi, al commento, al giudizio.
La questione, comprenderete, tocca da vicino anche chi vi scrive e da decenni prova – con una caparbietà sorprendente anche per me – a fare critica.
Chi ce lo fa fare? Che senso ha?
Così, pensando al bel lavoro ostinato e appartato di Lucidi, di Toppi, e di molti altri colleghi e colleghe in attività, giovani e meno giovani, vale la pena provare a rilanciare qualche domanda, al di là delle questioni economiche – oramai non ci paga più nessuno – e della solitudine cui ci autocondanniamo.
Perché la questione, a vederla in modo un po’ ampio, supera i margini della recensione o della testimonianza – compiti che ritengo comunque fondamentali – per abbracciare temi e questioni che sono del giornalismo tout court.
In questa prospettiva, critica, giornalismo e libertà sono da considerare elementi cardine attorno ai quali pensare il nostro mestiere. Libertà: “nientedimeno?” direte voi, non è un po’ troppo? E no, non lo è.
Quello del giornalista è un lavoro che dà, o dovrebbe dare, fastidio ai potenti, al potere costituito, alle consorterie e alle lobby che governano in questo paese come in altri. È un mestiere che si salda sulla libertà di pensiero, di parola, di espressione.
Siamo (anche noi critici teatrali), figli dell’Articolo 21 della Costituzione: che era una risposta forte e concreta all’oscurantismo violento del fascismo, una presa di posizione, fondante, contro la censura violenta che aveva oscurato l’Italia nel ventennio fascista. Alla direttiva costituzionale, da allora rimasta punto di riferimento, lezione morale e stimolo culturale, ha fatto seguito un’altra norma, come ben sanno i colleghi giornalisti, che pure ha voluto garantire come fondamentale il principio di lealtà: ossia il dovere di dire la verità.
Altra parola grossa. Libertà e verità: cose da far tremare i polsi.
Ma come si conquista questa libertà? Diciamo davvero la verità?
Oggi, anche per noi critici, si tratta di rivendicare quella libertà di pensiero e di espressione protetta dai Costituenti, e di non rinunciare al compito di discutere, analizzare, valutare, giudicare proprio nella prospettiva non solo di informare, comunicare e testimoniare quanto accade sui palcoscenici e nell’ambiente, ma anche di farlo in modo deontologicamente corretto, ovvero tendendo a quella “verità” di cui si diceva. Verità certo soggettiva, individuale, non dandosi per forza di cose obiettività di visione in teatro, tanto forte è il gusto, la prospettiva, l’opinione personale. Ma, come è noto, fatti e opinioni possono andare a braccetto, si possono esprimere le proprie opinioni nel rispetto della verità dei fatti, senza manipolarli, distorcerli, snaturarli.
E verità e miseria si coniugano? Senza budget, senza soldi, si riesce ad essere indipendenti nel giudizio? O forse è proprio la miseria, il non aver nulla da perdere che potrebbe renderci ancora più indipendenti e liberi?
Le risposte, chiaramente, sono complicata.
Si tratta, comunque, di fare buon giornalismo o almeno di provarci. Di scrivere, di studiare, di osservare. Di tenersi sempre aggiornati ma senza seguire le mode del momento, di guardare al passato apertamente e senza soggezione, di essere in controtendenza anche quando si è d’accordo: il critico stona anche quando è nel coro, perché nel coro non deve mai essere…
Si tratta di rispettare gli artisti che vedono sempre più lontano di noi, di ascoltarli e osservarli sempre nella certezza che senza gli attori e le attrici non c’è critica. E forse è più interessante lasciar parlare l’opera, l’oggetto-spettacolo, e ovviamente gli artisti, anziché raccontar di sé, delle proprie paturnie, delle proprie “poetiche”, della propria biografia.
Si tratta di ritrovare il pubblico, i lettori del passato e del presente, per attivare quelle libere discussioni e riflessioni, che possono essere il senso del teatro nel nostro tempo.
È difficile capire quel che si muove – se e quando si muove – nell’enorme magma dei teatri possibili, complesso cogliere, intuire l’arte anche laddove è ancora lontana da mostrarsi pienamente: però sta a noi provarci, intuire l’arte che sarà, senza sdraiarsi alle tendenze del momento, a decretare d’ufficio come buone le novità solo in quanto novità.
Così facendo, si tratta di fare politica, di fare cultura per quel che si può, con i nostri strumenti: l’osservazione, l’ascolto, la scrittura. Forse è questa la lezione che ci hanno lasciato i grandi critici del passato: essere là dove succedono le cose, non stancarsi, non accontentarsi.
Oggi avvertiamo, come pericolosa, una tendenza “prescrittiva” della critica, che dice alla creazione come “dovrebbe” essere per risultare “politicamente corretta”. Difficile non riscontrare, anche in questa tendenza, una sorta di malcelata censura, una visione che risponde certo al segno dei tempi, ma rischia di inficiare ogni slancio d’autonomia e libertà.
Se sono la “critica” o altre teorie a imporre regole agli artisti, bollando tutto quel che non risponde a tali indicazioni, siamo finiti.
Ne sa qualcosa Quentin Tarantino, il cui film C’era una volta a Hollywood è stato duramente attaccato, nel luglio scorso, da Richard Brody sulle colonne del prestigioso New Yorker, perché maschilista (i personaggi femminili, il rapporto tra il personaggio di Pitt e la moglie), razzista (la parodia di Bruce Lee o della attrice “italiana”, la mancanza di attori di colore). Ha fatto bene Brody? È così che deve essere? È arte “degenerata” quella di Tarantino? Occorrerà contare e verificare la rappresentanza di etnie e generi sessuali? La critica deve diventare portavoce della “comunità” di riferimento?
La tendenza è facilmente riscontrabile, e occorre ragionarci con molta attenzione: sono domande su cui riflettere, sfide che ci attendono e che dobbiamo affrontare per capire cosa sia la pratica critica.
Nel momento in cui l’Università Bocconi attiva un corso di Critical Thinking (indicandola come “competenza per il prossimo futuro”) e, al tempo stesso, assistiamo attoniti alla proliferazione e alla sistematica condivisione di fake news, non ci resta che rimboccarci le maniche, e pensare criticamente, partendo ancora dal teatro per capire e raccontare la realtà.
(L’immagine di copertina, che non ha alcun collegamento diretto con il contenuto dell’articolo, se non per la forte capacità evocativa, è dello spettacolo Nosferatu, di Dmitri Kourliandski, fatto a Perm nel 2014 con la regia di Theodoros Terzopoulos, protagonista Tasos Dimas, foto di Johanna Weber)
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