Teatro
Il corpo (della donna) che danza
Bisognerebbe continuare a interrogarsi sull’immagine del corpo della donna: è un terreno di battaglie secolari. C’era un bel documentario, in proposito, che si intitolava proprio così: il corpo delle donne. Ed è curioso e doloroso – la dico grossolanamente, non me ne vogliano femministe e maschilisti incalliti – notare quanto ancora lo sguardo dell’uomo possa condizionare o vincolare il corpo femminile. Lo si potrebbe verificare, paradossalmente, anche nella danza, quell’ambiente “in cui c’è il più alto tasso di donne per metro quadro” (la definizione è di un coreografo francese) che ha rispecchiato, e rispecchia tutt’oggi, le mille e una possibilità di narrazione di quel corpo.
Nel balletto e poi nella danza il corpo si è declinato in tutte le sue contraddizioni: dal corpo “segnato” dalle posizioni della ballerina classica ottocentesca al corpo “libero” e liberato del novecento. Insomma, la danza racconta una storia sociale, politica, culturale. Nei paradossi del nostro tempo complicato, la danza contemporanea esprime dunque fisicità diverse. La danzatrice filiforme, quella muscolosa, quella dal baricentro basso, quella eterea: quante possibilità, quante storie raccontano quelle strutture fisiche, mentali, artistiche?
Al di là di cliché, di stereotipi, di incasellamenti dovuti – troppo a lungo – a quello sguardo dell’uomo cui si accennava, nella danza “iper-contemporanea”, mi pare si stia coronando un percorso iniziato il secolo scorso, di riappropriazione definitiva del corpo da parte della performer donna. Il che, ovviamente, è un bellissimo segno e si riflette, credo, anche nella maggiore responsabilità che ciascuna danzatrice si assume facendosi autrice, ovvero coreografa, di se stessa.
È un dato di fatto (e le recenti Biennali dirette da Virgilio Sieni come pure le frequenti aperture del Romaeuropa Festival lo hanno confermato) che si siano moltiplicati lavori di assolo in cui la creazione dipende totalmente dall’interprete stessa: donne sole, alla conquista dello spazio (scenico) con una forza e una vitalità inusitate. Non sono valchirie allo sbaraglio, tutt’altro: con eleganza, sapienza, millimetrica precisione definiscono sequenze di movimento di raffinata caratura.
Il rischio è, peraltro, che anche l’assolo femminile si connoti in modo standardizzato per struttura e afflato. Già lo scorso anno, in occasione della NID, Nuova Piattaforma della danza italiana a Pisa, mi era capitato di scrivere di quanto e come il “concettuale” fosse entrato nel corpo della danzatrice, mutatosi in emblema astratto del contemporaneo. Una danza rarefatta, privata di appigli non solo narrativi, ma anche sonori, che spinge sempre più al performativo, addirittura estranea, distante, da ogni possibile realtà.
È stato molto interessante dunque, vedere al Mess Festival di Sarajevo, quattro assoli di altrettante danzatrici e coreografe, tra le migliori in attività in Italia e in Europa. A me manca un vocabolario corretto per raccontare la coreografia contemporanea, ma posso dire di essermi confrontato con lavori tutti di eccellente qualità, frutto di una ricerca stilistica e coreografica interessante, ma divisi su due binari che scorrono paralleli. Da un lato, allora, il fulgore assoluto di una ricerca pura, astrattissima; dall’altro, nella stessa attenzione per il rigore tecnico, delle aperture a universi più serenamente comunicativi.
Pur avendoli visti in sequenza e nello stesso spazio, ho notato dunque che la bravissima Francesca Foscarini, con il suo Gift e l’intensa Claudia Catarzi, con Sul punto, si calibravano su tensioni non distanti tra loro, quasi variazioni su schema, rimandando assonanze – pur nella diversità – che fanno rientrare gli spettacoli nel “trend” astratto-concettuale cui facevo cenno: con esiti di sottile eleganza e di algida raffinatezza comunque di grande impatto.
Apre invece più a una “narrazione”, per quanto solo accennata, l’ottima Giorgia Nardin, di cui apprezzai molto All dressed up to go nowhere (che era interpretato da Marco d’Agostin e Sara Leghissa) visto lo scorso anno. Con Dolly, creazione che vede la stessa Nardin in scena, la coreografa chiama in causa il corpo-modello di Barbie, e delle bambole di quella categoria. Ne fa un accenno parodico, lavorando su ammiccamenti e sorrisi, e ne svela la intrinseca violenza.
Ma il lavoro che è arrivato come una stralunata ventata di aria fresca, impostato com’è su strutture completamente diverse dalle dominanti, è On the other hand di Luisa Cortesi. La danzatrice, in maglietta e pantaloni neri, entra in scena tenendo una boccia di vetro con dentro un pescetto, si toglie le scarpe e inizia a vorticare su Hurry up and love me, un pezzo che non conoscevo di Antonio Carlos Jobim, come una dervishi del sentimento. È un girare vitalissimo e ossessivo, che poi si muta – sul canto di cicale – in una sequenza di gesti quotidiani, strappati alla realtà e resi minimi o plastici, infine struggenti. Il lavoro è diviso in quadri, fin troppo ricchi di movimenti (sicuramente sfrondare un po’ qua e là gioverebbe), sovraccarichi di intensità in quello che è un fluido fiume di curve, rotazioni, tensioni, ritorni, piccoli e grandi contorcimenti che non escludono sviluppi a terra.
Poi la struggente Las simplas cosas, cantata da Martirio, diventa quasi il manifesto poetico di questa piccola creazione: un inno a smussare, ad andare altrove – anche con leggerezza – raccontando un corpo femminile libero, poetico, consapevole, sentimentale, arrabbiato, orgoglioso, politico, sfrontato. Sono raffiche di gesti, di contrazioni, di scatti in un susseguirsi di quadri, scanditi in modo netto da canzoni o dai rumori di un popolarissimo mercato, che toccano l’apice con un ironico omaggio a Charles Trenet. Poi, tra schitarrate pesanti, lei si rimette le scarpe, prende la vasca del pesce e se ne va.
Devo dire che a me, questo tentativo di comunicazione, aperto e libero, che è un morbido avvolgimento del pubblico, è piaciuto, mi ha anche un po’ commosso, almeno quanto il raffinato brivido di una tensione astratta e concettuale, tutta mentale, dato dalla danza concettuale.
Poi, quando lo spettacolo delle quattro danzatrici è terminato, noi là, seduti in platea, continuiamo a non capirci nulla: né di danza né di quel mistero, quell’Altro da sé, che è il corpo della donna.
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