Teatro
Il complesso rapporto del Dio di Maometto con il teatro
Mentre assistiamo a quello che forse sarà il violento epilogo di una carneficina perpetrata nel nome di un dio, ci si interroga su cosa significhi rappresentare il divino. La Chiesa cattolica ha scelto di rappresentare Dio. Ne ha fatto fortuna: musei e chiese sono piene di opere dedicate alla sacra rappresentazione. Madonne, Cristi, santi e profeti, fino a quella specie di cartello stradale, quel triangolo che per abitudine è simbolo dell’occhio di dio. E gli artisti hanno volentieri speso il proprio talento nel cercare di dar volto all’invisibile. Ma non fu sempre così: come è noto, l’imperatore bizantino Leone III Isaurico ingaggiò una fiera lotta iconoclasta. Eppure le immagini “sacre” sono servite per indottrinare, per comunicare, per monito e sprone. I musulmani, invece, hanno scelto di vietare una simile rappresentazione. Ne hanno fatto addirittura un atto blasfemo. L’invisibile deve restare tale.
Svelarsi, mostrarsi, rappresentare, vedere, guardare: costellazione di azioni eternamente insolute. Per analizzare tutte le accezioni possibili di ognuno di questi verbi servirebbe un libro: dunque come rappresentare lo svelamento, mostrare il divino, così che noi possiamo vedere colui che ci guarda? Si torna ancora alla domanda di partenza: come e se rappresentare il dio. Nel bacino del mediterraneo si sono sviluppate queste due anime. Da un lato, la possibilità di rappresentazione, ovvero lo “stare per altro”, dunque la mimesi. È il fondamento del teatro greco, cui si lega la cultura cristiana che ha fatto anche della Passione uno spettacolo ripetuto ogni anno con aderenza e immedesimazione (vi ricordate il Vangelo di Pasolini? O un bellissimo film, Jesus of Montreal? Ben prima della pessima Passion di Mel Gibson).
Per tutto il Medioevo, in Europa il sagrato si improvvisava palcoscenico e la messa stessa assumeva i caratteri dello spettacolo dal vivo, con l’officiante-protagonista e il coro a dar la risposta. L’immagine del Dio cristiano è ovunque, il crocifisso è pervasivo, il papa addirittura in edicola con tre o quattro fanzine a lui dedicate. Accettiamo naturalmente don Matteo o suore che cantano in Tv. Eppure anche qui ci sono palesi contraddizioni: un paio d’anni fa, prima a Parigi poi a Milano, il regista Romeo Castellucci è stato duramente attaccato e minacciato (con tanto di veglie e preghiere di sentinelle militanti) dagli oltranzisti cattolici per il suo spettacolo Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, lavoro in cui la “scenografia” era costituita da un’enorme riproduzione del Cristo di Antonello da Messina. Stessi attacchi e minacce di morte, solo pochi mesi fa, per Rodrigo Garcia, a Poznan, in Polonia: lo spettacolo Golgota Picnic, è stato dunque annullato per timore di rappresaglie cattoliche e fatto poi solo in forma di lettura a Varsavia, mentre manifestanti cristiani buttavano bombe carta, cantavano, pressavano violentemente attorno al teatro. Allora può anche essere rischioso rappresentare dio: gli attori lo sanno bene, per secoli condannati ad essere seppelliti in terra sconsacrata perché, tra le altre loro colpe, sfiguravano truccandosi e travestendosi il volto dell’uomo, ovvero l’immagine e somiglianza del dio.
Anche il mondo islamico vive le sue palesi contraddizioni. Vale tenere a mente che non si deve sovrapporre mondo arabo e islam (essendo questo ben più diffuso) né mettere assieme sunniti e sciiti – ben distinti quasi come cattolici e protestanti. Quel che possiamo dire è che esiste una teatralità anche musulmana. Nel Maghreb e nel Mashreq ci sono sempre state forme di rappresentazione, di spettacolo, anteriori all’incontro con la rappresentazione “occidentale” imposta e introiettata – come tanto altro – dal colonialismo. Quelle forme erano legate al racconto, alla narrazione o al comico (“maskharah”, da cui deriva il nostro “maschera”) ma vi sono forme di “sacre rappresentazioni” islamiche, segnatamente in ambito sciita. I riti più comuni – ricorda la studiosa Monica Ruocco nel suo “Storia del teatro arabo” – sono legati alle feste religiose e agli spettacoli popolari organizzati durante il Ramadan, per celebrare la nascita del profeta Muhammad. Altri, forse più noti, riguardano i sufi, le cui forme rituali abbracciano sia la ripetizione ossessiva del nome di Dio da parte dei membri della confraternita, sia le danze dei dervishi.
Ma il rito più affascinante è la Taziyah, la “cerimonia funebre” sciita che si ripete ogni anno per la festa della Ashura. Qui attori dilettanti e professionisti mettono in scena, davvero come una Passione, la commemorazione dell’assedio di Karbala, avvenuta nel 680, dove fu ucciso dall’esercito degli sceicchi sunniti, Hussayn, figlio di Ali cugino del Profeta e capostipite degli sciiti. Uno spettacolo bellissimo, diverso di paese in paese, cui ho avuto la fortuna di assistere in Iran, dunque in lingua Farsi. Ogni giorno un nuovo “capitolo”, una nuova “stazione” di questa lunga storia, cui il popolo partecipa con grande partecipazione emotiva. Spettatori rigorosamente divisi tra uomini e donne, la Ta’zieh fa riflettere sul concetto di martirio e, ancora una volta, si interroga sul principio di rappresentazione. Con fare quasi brechtiano, l’attore non professionista che interpreta il ruolo dell’uccisore del santo Hussayn, prima di sferrare il colpo mortale, fa un “a-parte”: dice, in buona sostanza, che lui è devoto, che certo non si identifica con l’uccisore, ma deve fare quel gesto per compiere il rito (teatrale).
Ma il mondo arabo ha espresso anche forme raffinate di teatro d’ombre. Per esempio il Karagöz turco, poi diffuso il tutto il bacino mediterraneo: una sorta di nostro arlecchino – o il Hakawati, il cui compito è intrattenere il pubblico nei caffè, seduto su uno sgabello più alto degli altri, raccontando storie infinite. La questione si fa più spinosa quando il mondo arabo-islamico si scontra con la colonizzazione inglese, francese, portoghese, italiana: ossia attiene alla cultura post-coloniale. Si tratta di ricordare, infatti, che artisti, teorici, intellettuali del mondo cosiddetto post-coloniale continuano a interrogarsi sul problema dell’identità, cercando condizioni – all’interno di pratiche culturali come il teatro – per definire la propria soggettività.
«In gran parte del mondo colonizzato – scrive lo studioso nigeriano Awam Amkpa, docente a Bristol e New York – essere formalmente educato significa una simultanea subordinazione all’esistenza di due mondi paralleli – il primo è uno spazio globalizzato e un sistema di conoscenza che deriva direttamente dall’Europa, e l’altro è uno spazio locale frammentato da continui assestamenti interni provocati da forze e masse esterne. Una topografia culturale caratterizza così le “colonie”, rappresentandole al tempo stesso moderne e tradizionali, indigene e straniere, eurocentriche e aliene. Per gli autori che devono usare le lingue europee la questione della contro-identità organizza la produzione culturale e la sua intera ricezione. Tale questione non è né unitaria né stabile da approcciare».
Nel continuo, estenuante confronto tra valori tradizionali della propria cultura e valori imposti dall’Occidente, esplode un dualismo, nel modo di vivere, che si sperimenta quotidianamente. Una sfida complessa, a tratti disperata: il fatto è che la storia coloniale e imperialista ha riorganizzato e reinventato persino i concetti stessi di “tradizionale” e “indigeno” attraverso una loro sistematica de-contestualizzazione e de-politicizzazione. Esattamente come coloro che venivano introdotti nelle classi ed educati all’etichetta occidentale, così i regimi coloniali definivano cosa era “tradizionale” o “indigeno” o de-politicizzavano date culture. «Il colonialismo e la lingua occidentale – continua Amkpa – non sono stati semplicemente imposti, ma sono stati veri e propri strumenti di ri-organizzazione della società e del pensiero, re-inventarono etnie ed identità, sbaragliarono migliaia di anni di tradizioni culturali. All’interno della ricerca di una voce per l’espressione identitaria vi è una pratica consciamente descrittiva e dialogica di frammentazione, re-iscrizione, re-locazione e proiezione dei desideri post coloniali»
Dunque, anche il teatro, anche la rappresentazione, diventano territorio di conflitto e scontro. Con che lingua parla la scena musulmana? Chi rappresenta cosa? Ci sono artisti – come gli straordinari tunisini Fadhel Jaibi con la moglie Jalila Baccar, che da decenni combattono per definire una rinnovata identità islamica anche attraverso il teatro (e non a caso, sono stati leader della recente “primavera”). Come loro, solo per citarne alcuni, anche Roger Assaf, in Libano; il quebecchese Wajdi Mohawad; Mustafa e Ovul Avkiran in Turchia; Sa’d Allāh Wannūs, scomparso nel 1997 in Siria; il palestinese Ghassan Kanafani, ucciso dal Mossad a Beirut nel 1972 o il Freedom Theatre di Jenin. Qui dunque è il nodo: non scontro di civiltà, non guerra civile, ma consapevole confronto nelle diversità; non armi, ma penne e matite per scrivere storie diverse. Perché laddove c’è Fede, spesso vacilla la Ragione.
Nella foto di Wahid Adnan, tratta da Flikr, «Commemorating the sacrifice for justice» (Taziyah)2011
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