Teatro

Il carcere “arricchito” dal teatro. O il contrario?

11 Giugno 2015

L’altro giorno, in un convegno alla Sapienza di Roma – organizzato e presieduto con competenza dallo storico Roberto Ciancarelli – si parlava del “Teatro come ambiente arricchito”. La definizione, che viene dagli studi fisiologici, è certo suggestiva: dunque foriera di interpretazioni. E se per il professore emerito Ferdinando Taviani il teatro è sempre stato un “ambiente arricchito” – nella sua relazione evoca la “pastorale” di Tasso e il Carnevale de La Calandria –, oggi la categoria si rivela preziosa per analizzare e definire tutte quelle manifestazioni che escono dai confini del teatro propriamente detto, quegli spazi di “resilienza” (lo ricorda la studiosa Silvia Carandini) in cui attraverso il teatro si ricostruiscono comunità, identità, relazioni.

Il carcere è uno di questi ambienti: e il teatro, da tempo, ha superato i cancelli di tante “case circondariali” agendo come elemento tonificante, unificante, e soprattutto riabilitante. La prospettiva riabilitativa – che dovrebbe essere, ma sappiano non è – l’obiettivo primo della detenzione, diventa un fatto quasi implicito della pratica teatrale con i detenuti. Non è lo scopo: si fa teatro per fare arte, e il teatro funzione come “terapia”, vale la pena ricordarlo, solo se e quando  è davvero arte.

È interessante notare, comunque, come il teatro in carcere sia diventato una realtà ormai diffusa. Merito di esperimenti pioneristici (su tutti quello della straordinaria Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo a Volterra), e di tante altre iniziative che hanno creato una nuova mappa di “ambienti arricchiti”: da Venezia, a Padova, a Pisa passando per Napoli o per il carcere romano di Rebibbia.

L’esperienza capitolina, in particolare, si deve al gruppo La Ribalta-Centro Studi “Enrico Maria Salerno”. Animato da Laura Andreini Salerno e da Fabio Cavalli, il gruppo di teatro in carcere è salito agli onori della cronaca anche grazie al bellissimo film-documentario dei Fratelli Taviani su Cesare non deve morire. Spenti i riflettori dell’Orso d’Oro alla Berlinale, per fortuna, La Ribalta non si è adagiata sugli allori e anzi ha ampliato e approfondito la propria militante attività. È nato così anche il Progetto Accademia di Teatro Sociale, laboratorio di formazione teatrale e culturale permanente, ma esterno al carcere, che si rivolge a tutti i detenuti in misura alternativa, ai cittadini ancora reclusi in via di liberazione e a tutti gli ex detenuti che negli anni hanno partecipato alle attività teatrali del Centro Studi “Enrico Maria Salerno”. Il laboratorio, attivato nel dicembre 2013, ha sede nel piccolo Teatro Abarico, nel quartiere di San Lorenzo, ed è condotto da Valentina Esposito, giovanissima autrice e regista. A lei dobbiamo drammaturgia e regia di un prezioso spettacolo, visto l’altro giorno: Tempo Binario. È un piccolo, commovente gioiello, una “classe morta” di borgata, vissuto da un gruppo – sarebbe meglio dire una “banda” – di uomini, sul filo del ricordo. Parte da una evocazione di Proust, della Recherche e della sua madaleine: quante suggestioni, quante emozioni, possono scaturire da un sapore, da un gesto, da un profumo.

 

Tempo Binario, di Valentina Esposito
Tempo Binario, di Valentina Esposito

Tempo Binario è dunque un gioco con il passato, con la nostalgia di sé e del mondo. È una cerimonia funebre vitalissima: il racconto di un viaggio verso un’ade fantomatica, che è il polo Nord, organizzato per accompagnare l’ultimo del gruppo. Inseguendo memorie personali o condivise, si dipana la narrazione che si rivela dunque una ricerca del “tempo perso”, impastata di sogni e sconfitte, di sfottò e rimpianti. Si capirà lentamente la vera natura di quel complicato percorso verso l’aurora boreale, si svelerà pian piano l’assurdità del contesto: il “protagonista” non sa di esser morto, non sa perché i suoi amici di infanzia si comportino in quel modo strano, non capisce, non ha ancora capito, come mai alcuni siano più vecchi di altri.

Questo racconto “on the road to nowhere” acquista valore, dolore, colore, grazie ai volti, agli occhi, ai gesti, alle voci: risalta e affratella, nella sua naturalezza, proprio la barthesiana “grana” delle voci, che evoca paesaggi popolari, umani, semplici.

Tempo Binario è una struggente storia di piccole cose, di oggetti che si fanno memoria lieve e delicata, ma non risparmia colpi bassi e amarezze, autoironie e disincanto: usando intelligentemente gli scarni elementi scenici – delle panche che composte o scomposte possono diventare barca, automobile, bancone di un bar, o finalmente bara – le situazioni si moltiplicano in quadri, stazioni di una laicissima via crucis, senza escludere una comicità sgangherata e amicona. C’è da ridere, a ripercorrere le vicende di questa “banda degli onesti”. E sono bravi tutti i protagonisti, che meritano gli applausi convinti del pubblico: Alessandro Bernardini, Massimo Di Stefano, Ivan Marcantoni, Romolo Napolitano, Ruggero Palmiotto, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Sandro Verzili.

Poi, però, la risata resta sospesa, incerta, nel silenzio abissale della morte. Il tempo se n’è andato, gli errori sono tutti là: indietro, però, non si può tornare.

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