Teatro

Idomeneo, ovvero il primo Sturm und drang

20 Maggio 2019

Con l’«Idomeneo» in scena in questi giorni alla Scala (fino al 6 giugno) si interrompe finalmente il ciclo di contestazioni che hanno accolto i registi delle ultime produzioni: a volte a torto, come per Mario Martone con la sua «Chovanščina» tarkovskiana, più spesso a ragione, come per «Manon Lescaut» di David Pountney e «Ariadne auf Naxos» di Frederic Wake-Walker. Invece se l’è cavata il tedesco Matthias Hartmann, già colpevole di un «Freischütz» tra il brutto e il bruttissimo visto la scorsa stagione, dove persino Chung sembrava dirigere (quasi) male. Tuttavia, da qui a dire che questo spettacolo sia riuscito ce ne vuole. Per una svolta di questa stagione dobbiamo aspettare Graham Vick con «Die Tote Stadt», in scena dal 26 maggio: qualunque cosa ne verrà fuori varrà la pena andarci.

Titolo che ribolle di Sturm und drang, «Idomeneo» è l’occasione di Mozart per mettere in dubbio le rigidità delle convenzioni dell’opera seria. Certo il compositore venticinquenne riparte da Gluck, ma sviluppa subito uno stile personale, con accenti e turbamenti mai sentiti prima, e con una coppia, Ilia–Idamante (in verità due soprani, ma per Mozart il gender non era certo un problema), che riesce a commuovere il pubblico ben più del precedente tentativo Giunia–Cecilio nel «Lucio Silla», opera assai meno incandescente. E poi c’è Elettra, sorella e complice del matricida Oreste, qui infelice terza incomoda costretta a fuggire alla fine per non trafiggersi in scena alla notizia dell’imminente unione dei due innamorati.

Hartmann ambienta l’opera nella scena girevole ideata da Volker Hintermeier, che riprende i cliché di una Creta arcaica (circa dieci metri di testa di Minotauro), solo che esagera, e finisce col mettere tutti a cantare in una specie di steakhouse. Peccato, perché i presupposti per uno spazio scenico interessante ci sarebbero anche, manca solo quel minimo di gusto per evitare l’effetto “carcassa di bufalo” in scena. Assai buffo lo spettacolo nello spettacolo visto durante l’intervallo, con il pubblico preso a farsi i selfie con le corna del Minotauro sullo sfondo, circostanza che ha trasformato per una sera i nostri profili Instagram nell’accampamento di Asterix e Obelix. Questo potrebbe farci rileggere l’intero allestimento come un fumettone involontario; se invece fosse volontario mi rimangio tutto e Hartmann è un genio – anche se, a dirla tutta, nessun fumetto potrà mai giustificare la coreografia finale di Reginaldo Oliveira, che qualcuno a un certo punto deve avere disgraziatamente approvato.

Quanto alla regia vera e propria, intesa come narrazione della vicenda, approfondimento psicologico dei personaggi, riflessione sul pre e post Metastasio, è tutto piuttosto modesto: lo spettacolo è una semplice alternanza tra pose statiche e scenette più movimentate, magari meno convenzionali, ma che tendono spesso al ridicolo: inseguimenti con la spada, amplessi con indumenti feticcio, tormenti interiori tradotti in un girovagare senza meta dei cantanti tra conchiglie e paguri che, più che oggetti di scena, sono ostacoli in cui si inciampa tra un’aria e l’altra.

Arie davvero impervie più o meno risolte da un cast di cui, a parte l’Elettra di Federica Lombardi, il meglio che si può dire è che sia composto da professionisti. Un cast che andrebbe benissimo in un teatro medio tedesco, ma che non è nemmeno paragonabile a quello dell’«Idomeneo» con cui Daniel Harding inaugurò il dopo Muti alla Scala nel 2005: Davislim, Bacelli, Bell, Tilling. Il tenore Bernard Richter ci mette un po’ a ingranare, almeno fino alla terribile “Fuor del mar” in cui finalmente sistema l’intonazione, un po’ meno le agilità. Julia Kleiter è una Ilia talmente delicata che quasi non ci si accorge di lei, e la sua vicenda amorosa con l’Idamante di Michèle Losier, più musicale della collega, non tocca mai la passione che ci si aspetterebbe. Quanto alla Lombardi, si cambia decisamente di categoria per la bellezza del timbro e l’efficacia dell’interpretazione, tanto che il suo “D’Oreste, d’Ajace” ai limiti dell’espressionismo, con braccia da tutte le parti, è tra i momenti più avvincenti della serata. Insieme ad alcune pagine corali che, oltre ad atterrire il pubblico, chiariscono come «Idomeneo» possa aver visto la luce lo stesso anno dei «Masnadieri» di Schiller.

Infine Diego Fasolis, chiamato a sostituire l’annunciato Christoph von Dohnányi. Forse la sua direzione alla Mannheim che «profuma» di prassi storicamente informata presenta un po’ di imprecisioni e qualche problema tecnico, ma ciò che conta è l’energia di una lettura che nel complesso risulta incisiva e giustamente priva di enfasi, anche se un po’ più di calore darebbe alla partitura l’intensità emotiva che merita.

Foto di Brescia/Amisano.

 

 

 

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