Teatro

I ricordi si susseguono: ancora per Cristina Pezzoli

28 Giugno 2020

Dopo la raccolta di testimonianze, tutte al femminile – un po’ per caso e un po’ per scelta – che abbiamo dedicato a Cristina Pezzoli, ecco che altri hanno voluto, con piacere, dare un contributo di aneddoti, ricordi, riflessioni sul lavoro di questa straordinaria donna e regista che ci ha lasciato troppo presto. Con molto piacere e affetto, allora, ricevo e volentieri pubblico gli scritti – stavolta, un po’ per scelta un po’ per caso, tutti al maschile e in ordine alfabetico – di artisti che hanno condiviso il proprio percorso creativo con Cristina Pezzoli. Ecco allora un altro, piccolo, omaggio: nella consapevolezza che non sarà certo sufficiente, ma solo un piccolo passo per continuare, con gioia, a ricordare. 

 

 

Martino Baldi

Sono stato assistente di Cristina per poco tempo, negli anni della direzione del Teatro Manzoni di Pistoia, e suo complice per tutti gli altri seguenti, soprattutto nelle sue avventure più ardite, nei suoi castelli in aria. Nelle dinamiche delle produzioni teatrali, Cristina stava stretta. Metteva tutta la sua intelligenza e il suo mestiere in ogni lavoro ma la maggior parte delle sue energie era indirizzata verso qualcosa di più alto. Cristina era una pensatrice senza tregua, con lo sguardo fisso, anche durante il (poco) sonno, sul nocciolo tragico dell’esistenza, individuale e collettiva. Pensiero e azione in lei non conoscevano discontinuità. Per quello non ha mai risparmiato una stilla di energia, sembrava una macchina inesauribile. La rabbia per l’impotenza a cui è ridotta l’intelligenza nei nostri tempi la incendiava e lei piuttosto che spegnere le fiamme reagiva appiccando un incendio sempre nuovo. Capiva tutto meglio degli altri: i testi, i fatti, i simboli, le personalità. Capiva meglio degli altri anche loro stessi. Eppure aveva un inestinguibile bisogno degli altri, non per sé ma per la sua missione. Il fatto è che il cuore pulsante del suo impegno artistico e intellettuale era soggiacente a tutte le prassi: era la passione per la verità. Ma la verità sfugge da ogni parte e anche per quello Cristina aveva bisogno di molte braccia per allargare il cerchio, sperando così di riuscire a non farsi sfuggire niente. Me la immagino come una medusa mitologica che tiene in braccio un mondo a forma di enorme scolapasta, cercando forsennatamente di tappare tutti i buchi con i suoi capelli-tentacoli, che però non sono mai abbastanza. Da questa questione di vita o di morte proveniva la sua missione pedagogica, che andava ben oltre i doveri del mestiere, come hanno sperimentato tutti coloro che l’hanno conosciuta. Vederla all’opera con gli attori era il vero spettacolo: lavorare con lei significava farsi scarnificare, a volte anche violentare, abusare, ma lei era la prima a non tirarsi indietro, a non risparmiarsi mai. Ti sbranava perché aveva fiducia in te, ti portava verso un punto più profondo di te stesso che lei aveva subito intuito. E una volta sbranato ti restituiva a un altro livello di coscienza di te e della tua missione, se veramente ne avevi una. Sognava di cambiare il teatro e di cambiare il mondo col teatro. Sicuramente ha cambiato il teatro e il mondo di coloro che l’hanno conosciuta. Mi manca e mi mancherà più di qualsiasi persona che mi sia finora venuta a mancare. La notizia della sua scomparsa mi ha fatto sentire improvvisamente come un computer invecchiato a cui non forniscono più gli aggiornamenti. L’insegnamento del suo esempio e la gratitudine per tutto quello che ha scelto di condividere con me saranno per sempre una luce al centro dei miei pensieri. Sarà per sempre un’interlocutrice di cui è impossibile fare a meno. Spero di essere all’altezza.

 

Jurij Ferrini

A poco più di un mese dalla sua dipartita ancora non riesco a credere che Cristina Pezzoli non sia da questa parte del confine tra la vita e l’ignoto. Si era ammalata. Come una leonessa ha lottato per se stessa e per i suoi quattro cuccioli. Grandi, ma non tutti già adulti. E quando lo si diventa oggi? Cristina ha sempre lavorato tantissimo con una generosità senza limiti. E negli anni era diventata la maggior pedagoga italiana per artisti teatrali. Lascia un vuoto enorme alla Shakespeare School e non solo. Chi non l’ha incontrata ha perso sicuramente qualcosa. Noi che siamo ancora qui possiamo sicuramente portare avanti la sua esperienza, la sua dedizione senza confini all’arte. Ho pensato che cosa mi avrebbe detto: di non perdere tempo a compiangerla. Di darci da fare per l’arte del Teatro. Di prendere la responsabilità di cambiare quello che possiamo, ossia noi stessi. E di scavare ancora in un testo, nelle relazioni tra i personaggi e poi di alzare l’asticella. Ogni giorno un po’ di più. Quindi per stare lontano dalla retorica posso dire che riesco più o meno a vivermi così – come avrebbe voluto lei – questa mancanza. Tranne quando vedo qualche sua foto. Che magari non avevo mai visto prima. Ecco in quel caso tutto si fa più difficile e la retorica dei pensieri diventa un rischio concreto. Potenza delle immagini? Forse. E allora preferisco non dire e non scrivere niente. Preferisco sentirla vicina. Come è ed è sempre stata.

 

Tindaro Granata

A chi verrà dopo di noi, avremo il dovere di raccontare la complessità di Cristina, la sua forza vulcanica, i suoi insegnamenti, i suoi ragionamenti, sempre votati a smascherare la falsa coscienza in ogni uno di noi; sarà difficile, però, farlo senza avere la quella visionarietà, quella capacità di analisi e la testardaggine di Cristina.
Chiunque l’abbia incontrata avrà da raccontare la propria personale esperienza, perché era una madre per tutti noi, a volte molto dura, di quelle che ti fanno prendere lo sciroppo amaro;  a volte era paziente, a volte comprensiva, ma sempre pronta a “partire” ad “iniziare”.
Spesso ai suoi laboratori o durante le prove mi accorgevo che guardava, non solo chi stava lavorando, ma anche chi era spettatore, questo mi ha fatto capire che il suo punto di vista era strettamente legato all’indagine degli effetti prodotti dalle parole, dai gesti e dunque, dalle emozioni.
Come se inconsapevolmente avesse indirizzato il mio sguardo a quello che c’è “fuori” e non solo dentro il mio “piccolo” sentire: “Sul palcoscenico esistiamo solo se esiste una relazione, che sia tra attori, o tra artisti e spettatori”, mi disse una volta seduti a tavola per pranzo.
Mi sono dato una spiegazione (forse malamente, ma ci ho provato) al senso della frase che ripeteva spesso “Qui e ora”: accade tutto nel momento in cui agiamo o reagiamo (azione /reazione) e in quel momento, quella scintilla provoca una deflagrazione, misteriosa: la recitazione.
Esseri capaci di esplodere in ogni momento sapendo che siamo benzina in relazione ad una fiamma, di un collega o di uno spettatore, creando magicamente il Teatro.
Chissà che direbbe oggi Cristina di questa idea di insegnare ai giovani attraverso Zoom e varie piattaforme social, sicuramente mi sorprenderebbe e mi direbbe il contrario di quello che io mi aspetterei sentir dire da lei: eccola la mia Cristina.

 

Mauro Malinverno

Il mio rapporto con Cristina nasce nel 1983 alla Civica Scuola d’arte drammatica ‘Piccolo teatro’ di Milano perché eravamo in corso assieme, lei come regista io come attore. Nacque da subito un rapporto speciale, tanto che nel 1986 per due saggi finali per avere il diploma, lavorammo con Massimo Castri e il Grande Tadeusz Kantor. Mi ricordo che alla fine dello spettacolo con Kantor, che fu un esperienza indimenticabile, lo stesso Kantor a me a Cristina e a Francesco Migliaccio insieme agli altri allievi, ci fece un discorso su come avremmo dovuto affrontare il mondo dello spettacolo. Ci disse di continuare assieme, senza aspettare scritture, un lavoro attoriale di grande ricerca creativa e sperimentale. Grazie a Paola Donati del Teatro Due di Parma riuscimmo a fare io e Francesco Migliaccio due spettacoli di grande rilievo per l’immensità creativa diretti da una caparbia, determinata e profonda ricerca della grande Pezzoli. Cristina divenne subito dopo, la regista assistente del grande Castri, dove insieme a lui facemmo il progetto Euripide con lo scopo di ricercare, studiando assiduamente, un metodo molto ambizioso: diventare autori, registi, attori nella costruzione del personaggio in maniera autonoma. Furono anni, con la Pezzoli, di profonda crisi e  vittorie allo stremo di una stanchezza che ci portò spesso litigi e incomprensioni. Passavamo tante ore in teatro con lo scopo di togliere i nostri cliché per cercare, con lo studio di molti maestri, come Kantor, Stanislaskij e Peter Brook. Fu davvero estenuante ma la Pezzoli fu molto esigente, a volte troppo. L’ambizione della Pezzoli era proprio quella di diventare un punto di riferimento nella storia del teatro italiano e nonostante la sua breve vita, in parte ci riuscii. Io però mi distaccati da lei e dai miei compagni perché Castri mi volle in molti spettacoli (22 anni). Mi richiamo dopo molto tempo per uno spettacolo scritto alla bravissima Sonia Antiori, che vinse il premio Riccione, Il Sole dorme, assieme a Ilaria Occhini e Barbara Valmorin, mancate anche loro da poco. Il metodo della Pezzoli in 35 anni di lavoro lo tengo ancora nella mia, se così si può dire, arte. Cristina lascia un vuoto enorme. Devo, nonostante la sua difficile e ambiziosa ricerca, un grande debito di gratitudine come amico e come attore.

 

Nicola Pannelli

Cara Cristina.

È bello raccontare la nostra esperienza insieme. In questo momento del tuo trasloco, restituirti qualche nostra fotografia potrebbe farti piacere. Potevo resistere, tenere il privato, il mio intenso, forte personale privato nel mio archivio interiore. Ma raccontare alla fine è sempre più bello che tenersi dentro le cose, almeno per me. Ci siamo conosciuti nel ’93 del secolo scorso, quando hai tirato fuori le forze, un po’ strappandole a Massimo Castri, e portandogli via attrici e attori che lui considerava suoi (c’ero anch’io ma ero appena arrivato), e con le tue forze hai cercato ardentemente un Teatro d’attori, condiviso, spartito, responsabile, sofferto, duro, pensato. Con La tragedia spagnola di Thomas Kyd, con Il principe travestito di Marivaux, con Il caso Moro di Buffagni ho vissuto una crescita veloce dal punto di vista attoriale. In quel villaggio di attrici e attori che stavano già facendo i conti con il senso profondo del teatro, mi sentivo lo scemo spavaldo e un po’ belloccio del gruppo. Dalla mia avevo solo un discreto talento, una sicurezza invidiabile e la faccia da culo. E riuscivo a cavarmela, in ogni caso, così almeno mi sembrava. Mi ricordo bene, ti divertiva la mia irruenza o freschezza che fosse. E io ero contento. Mi sembrava di passare esami difficili per il rotto della cuffia cadendo in piedi per miracolo. Wow! Un gran mazzo stare dietro a tutte le domande, a tutte le riflessioni necessarie per “connettersi” con le storie e con i personaggi. Un mazzo inimmaginabile per me che pensavo che recitare significasse dire bene le battute e metterci dentro ciò che ti viene. Come nella vita, procedevo senza riflessione, senza farmi domande, senza chiedermi che rapporto avessi con i temi con cui il Teatro ti costringe a misurarti. Io pensavo, se pensavo, di contenere già ogni cosa. Ma era una maschera, la mia o meglio una corazza psicologica. E al momento opportuno sarebbe stata presa a colpi di scure. I tuoi colpi, la tua scure. Con L’Annaspo di Raffaele Orlando è arrivata la scure. Ma ancora un momento. Torniamo un attimo indietro. Pochi mesi prima, abbiamo fatto insieme quel meraviglioso lavoro, non destinato alla visione di un pubblico, ma ad uno studio semmai solo preparatorio, che si chiamava Tre sorelle. Come ha scritto Carla Manzon, c’era un cast che oggi si direbbe di altissimo livello. Anche lì io mi sentivo un po’ scemo, ma contemporaneamente dotato di una sicumera che mi proteggeva dal senso d’inferiorità. Ed ecco che nel ruolo di Solenyj, toccai un vertice di verità disperata che sorprese me stesso. Che ognuno creda quello che vuole. Passai una mano di bianco su tutta la zona. Ti vedevo strafelice del mio lavoro e quindi di tutto, stavamo facendo cose che avevano senso. Stavamo creando una Compagnia di artisti. E io ne avrei fatto parte con la tua approvazione entusiastica. “E tosto tornò in pianto…”. Terminava questo laboratorio sul testo di Checov e io avevo qualche mese libero fino all’allestimento dell’Annaspo, cioè la mattanza. La mia, voglio dire. Arrivai alle prove impreparato. Impreparato su tutto, testo (difficilissimo) e materia (difficilissima). Cominciò un balletto ridicolo in cui venivano a galla giorno dopo giorno la mia incapacità, la mia impreparazione, la banalità del mio atteggiamento, le mie resistenze, tutte le mie difficoltà. Era come salire sul ring ad affrontare un peso massimo pensando di andare in spiaggia a fare un pisolino dopo pranzo. Mi sono dovuto svegliare dal mio torpore e a svegliarmi sei stata tu, a sberle. A colpi di scure. Incessanti. Mi hai fatto provare, esercitare prima, durante e dopo le prove. E io ho cominciato a provare – senza risultati, senza esiti – a casa, per strada, in bagno, nel sonno, nei sogni, negli incubi. La mia corazza si è schiantata lasciandomi nudo come un verme a pregare – letteralmente e rispettivamente – in arabo (per Allah), in italiano (per Dio) e in una lingua disperatamente inventata lì per lì per Budda. Non mi hai mai concesso e io non mi sono più concesso che brevi attimi di respiro. Hai lavorato i miei fianchi come un frantoio frange le olive, a secco, a freddo, a caldo, in umido. Ero disperato e mi mancava il rapporto di complicità che avevamo avuto fino a pochi mesi prima. Di quello non era rimasto nemmeno una traccia. Dopo L’Annaspo non ci siamo più sentiti. Tu hai messo un crocione su di me. Io ho messo una lapide su di te. Ti ho detestata a lungo, mentre mi leccavo le ferite. Intanto qualcosa mi stava lavorando, continuava a lavorarmi dentro. Non c’eri più e c’eri ancora, che tu lo volessi o no e senza saperlo. Rimanevi a lavorare dentro di me. L’esperienza de L’Annaspo, che mi aveva denudato e lasciato spiaccicato sul terreno, segnava una tacca profonda nella mia anima e se come persona ho continuato a digrignare i denti ogni qualvolta ti si nominava o a prestare il fianco alle critiche che ti venivano rivolte, come attore ho fatto un viaggio potente verso la tragedia. E qui c’era senz’altro il tuo “zampone”, come un traghettatore insopportabile mi hai spinto nella mentalità tragica, quella vera, non mediata e che per me è diventato impegno politico. Col passare del tempo, siamo spariti l’uno all’altra, cosa che ho visto succedere a tanti, amici e non amici. Non ho mai apprezzato i tuoi fedelissimi, intendo quelli che amavano farsi travolgere dalle tue incursioni devastanti. Non ho mai apprezzato i tuoi detrattori, intendo quelli che ti hanno impedito qualunque incursione. Io ti porto dentro di me, come uno strato di quello che sono. Nicola

Ps. Un piccolo aneddoto che credo farà sorridere. Durante le prove de L’Annaspo, quando ero in fondo al pozzo, lontano da una possibile risalita, venivo alle prove in stato catatonico. Era in periferia, la sala prove… via di Casal qualcosa. Vicino a un capannone industriale c’era un camion, una mercedes e un uomo con un grembiule azzurro da magazziniere. Il tizio mi fece segno di fermarmi, in modo cortese e io, che in quel momento non avevo personalità alcuna, mi fermai anche se non volevo farlo, come ubbidendo. Abbassai il finestrino anche se non volevo e lui mi fece vedere 4/5 giacche di pelle e di renna (finte). “S’arrangiano i ministri, ci arrangiamo pure noi!”. Io non le volevo, naturalmente, ma ubbidii e trovai una scusa sotto la superficie. Mi dissi che stavo forse per fare un affare. Lui allungò il braccio e mi mise sotto gli occhi un tesserino che gli dava delle credenziali. Gli chiesi il prezzo, mi chiese quanto avevo. “80 mila lire” dissi, forse controllai. “Andiamo a un bancomat allora!”. Va bene, dissi. Non volevo, ma ubbidii. Mi stava montando una paura disperata ma quella voce stupida dentro di me cercava di attenuare il carico continuando a ripetermi “Vai che stai facendo un affare da vero malavitoso! Vai!”. Il tipo, con accento padovano, salì in macchina, andammo a un bancomat, mi disse “Prendi più che puoi!”. Io ubbidii, prelevai 500 mila lire. Glieli diedi, tornammo al camion e alla Mercedes, mi disse “Dai qualcosa per il ragazzo che è in macchina”. Ubbidii e gli diedi le 80 mila lire che avevo nel portafoglio. Ci salutammo. Mi sentivo in mezzo ad un oceano depressivo. Unico sollievo, quella vocina che adesso un po’ incerta ripeteva che avevo fatto un commercio da mercato nero! Magro sollievo. Arrivai alle prove e la mia psiche si sosteneva con gli spilli. Stavo così. Raccontai la vicenda a Cristina e agli altri, mi ricordo che lei si fece una risata. Sai cosa ho pensato? Che avevo fatto un costosissimo stage con un vero malvivente in preparazione del personaggio che dovevo fare nello spettacolo. Qualcuno sospettò che la truffa subita l’avesse organizzata proprio Cristina, per farmi capire come dovevo fare in scena.

 

Fausto Paravidino

Cristina Pezzoli non la conobbi quando Sara Bertelà me la voleva presentare perché ero molto timido e avevo paura di non piacerle. Poco tempo dopo vidi L’Annaspo di Raffaele Orlando, con la regia di Cristina. Lo spettacolo mi piacque da morire e Cristina diventò una regista che mi faceva un po’ paura e con la quale mi sarebbe piaciuto lavorare. Le persone che stimo mi fanno sempre molta paura. Incontrai Cristina tante volte, ci furono collaborazioni sfiorate, mancate e a volte anche riuscite. Quando Marco Bernardi mi propose di fare Spettri di Ibsen con la sua regia per il teatro Stabile di Bolzano accettai molto volentieri. Letizia Russo aveva curato la drammaturgia, in scena c’erano Patrizia Milani, Carlo Simoni, Alvise Battain, Valentina Brusaferro e io che facevo Osvald. Cristina la buttò subito sulla violenza. La cosa che diceva più di frequente era “provocalo”. L’azione fondamentale che suggeriva era quasi sempre “provocalo”. Ed era anche quella che faceva lei. Ti provocava continuamente. Ti rimbecilliva di indicazioni, belle e brutte, ridendo o urlando e sempre con la stessa energia. Un’energia altissima. Cosa voleva dire “provocalo”? Cosa voleva vedere Cristina? Perché così tante indicazioni evidentemente impossibili da agire tutte insieme come lei te le dava? Provocalo a cosa? Provocalo perché? In scena si litigava sempre. Un paio di anni fa, in un momento di crisi ho chiesto a Maria Teresa Berardelli che mi stava facendo da aiuto regista: “Se le cose vanno storte e non puoi avere da un attore una cosa che sia al tempo stesso viva e bella la preferisci viva o bella? Cioè, hai più paura del brutto o della morte?” Cristina non aveva dubbi. Voleva qualcosa di vivo. Bello o brutto sembrava non le importasse nulla. Voleva che succedesse qualcosa. E ce la metteva sempre tutta. Quello che succedeva in scena era tanto. Quello che faceva era tanto. Le giornate erano sempre troppo corte e finivano sempre con Cristina che litigava con chi voleva chiudere il teatro. Mi divertivo tantissimo con lei. Non mi sembrava vero di avere a che fare con una regista che avesse il coraggio di chiedere sempre di più e che fosse sempre disponibile a guadare cosa succedeva e a lavorarci su. Sembra incredibile che sia morta. Credevo che niente e nessuno sarebbe riuscito a farla star zitta.

(Nella foto di copertina: il backstage di LOVE IS BLONDE Marilyn in progress #1 (2018) in foto: Cristina Pezzoli, Silvia Giulia Mendola, Oreste Valente – ph. Domenico Conte)

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